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Wanna Marchi, l'accordo dietro la serie Netflix: dettagli pazzeschi

Francesca D'Angelo
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Farà discutere? Ovvio. Piacerà? È molto, molto probabile. Di certo, se inizierete a guardare la docu Wanna di Netflix (sarà disponibile dal 21 settembre, segnatevelo) non riuscirete più a mollarla. Ancora una volta - o forse, per l'ultima volta - Wanna Marchi ci inchioderà al divano stordendoci con il suo dubbio carisma per quattro episodi di fila. È lei infatti il vero, ipnotico, punto di forza della docu realizzata da Fremantle. Fintanto infatti che davanti al video, intervistati da Alessandro Garramone, si alternano vittime di Wanna Marchi, amici, conoscenti ed ex collaboratori, la docu viaggia sui binari canonici del genere.

Intendiamoci: quelli sopra elencati sono punti di vista sacrosanti e doverosi, necessari per ricostruire il fenomeno Wanna, ma che non reggono il confronto con quello che succede quando, davanti alle telecamere, arrivano Wanna Marchi e figlia. In quell'istante esatto è come se ci travolgesse un incantesimo: trangugiamo tutto quello che dicono, vero o falso che sia, e per un attimo ci rendiamo conto che la gente vittima delle loro truffe è stata ingenua, certo, ma aveva davanti un mostro sacro della comunicazione. I suoi tempi televisivi sono infatti perfetti: oggi come allora, strizza l'occhio alla telecamera, fa la battuta quando serve, provoca quando deve provocare.

COMUNICAZIONE AGGRESSIVA
«Wanna è stata tra le prime a capire che la comunicazione aggressiva avrebbe fatto strada», spiega Alessandro Garramone, «lei si ergeva come una fustigatrice ma allo stesso tempo era come se ti dicesse: "Io ho le corna come voi". Le sue stesse televendite erano di fatto delle stories di Instagram ante litteram».

Così, se negli Anni 80 Wanna ti vendeva fanghi o creme ancora da inventare, oggi ti vende se stessa: un'immagine ultra pop della sua vita, accattivante quanto basta da farti (quasi) simpatia. Lei si processa e si assolve da sola. Ovviamente emerge con chiarezza tutta la follia di queste due donne eppure, per un momento, hai quasi il sospetto che, a guadagnarci da tutta questa operazione, alla fine sia proprio lei, Wanna, che nei cartelloni pubblicitari di Netflix ti guarda dritta negli occhi, chiedendoti: «Sempre ingannare, mai pentirsi. D'accordo?».

Particolare fondamentale: la nostra, così come la figlia, non ha percepito mezzo euro per la serie tv. Non solo. «L'accordo prevedeva molti vincoli: lei e la figlia non avrebbero avuto alcun controllo autoriale sulla serie, non l'avrebbero vista in anteprima, avrebbero dovuto rispettare un accordo di riservatezza, e il compenso sarebbe stato pari a zero», conferma il produttore di Fremantle, Gabriele Immirzi, «ci abbiamo messo un po' a convincerle ma alla fine hanno accettato».

IL RICHIAMO DEL VIDEO
Probabilmente il richiamo delle telecamere ha ancora un fascino molto forte sulle Marchi. O forse hanno intuito la potenzialità di questa serie. Per certi versi Wanna è il nostro Tiger King, altra serie cult che aveva spopolato su Netflix: due matti, giustamente puniti dalla legge, ma che "fanno il giro" e diventano televisivamente irresistibili. Detto questo, bisogna però riconoscere che il ritratto che emerge dalla docu è comunque molto onesto e puntuale: «Tutte le sue dichiarazioni vengono incastonate all'interno di una serie di dati. Quello che non ci tornava lo abbiamo escluso», precisa Garramone. 

Per realizzare Wanna non si sono ispirati ad alcun libro ma hanno parlato con circa 40 vittime, passando in rassegna qualcosa come 80 ore di televendite: un lavoro mostruoso (ode al temerario collaboratore che si è scalettato tutti i video...). Il risultato sono quattro episodi, di cui i primi due zeppi di aneddoti inediti. «Il filo conduttore della serie è il potere di persuasione che si può avere attraverso le telecamere», conclude Giovanni Bossetti, Manager per i contenuti italiani non fiction di Netflix. Un argomento a dir poco attualissimo.

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