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Costanzo, Vittorio Sgarbi: "Cosa lo faceva godere davvero"

 Vittorio Sgarbi

Carlo Piedistalli
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«Non c’è niente da celebrare perché Costanzo non è morto. Vive in un caleidoscopio. Lui contemporaneamente ha rappresentato la politica, la cronaca, il teatro, lo spettacolo, divenendo un moltiplicatore unico e impossibile da imitare. Con lui la vita è diventata più teatrale del teatro e al tempo stesso il teatro più forte della vita. È l’unico personaggio televisivo ad aver lasciato degli eredi ovunque: su La7, su Rete4, sulla Rai che hanno seguito il suo metodo di ricerca e di passione per il fuorionda, ovvero per l’imprevisto. Nessuno come lui, infatti, capiva quando stava per capitare qualcosa». A parlare è il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi che raggiungiamo, grazie a un ponte telefonico tra il suo agente Sauro Moretti e l’autista, nel mezzo di un ennesimo viaggio che non si ferma, per il professore, neppure nelle giornate più dolorose come quella di ieri.

 

 

 

Sgarbi è comunemente considerato una creatura di Costanzo, divenuto famoso proprio nel salotto televisivo di Canale 5. Qualcosa che lui stesso non ha mai smentito, anzi, nella giornata di ieri ha confermato quasi d’istinto non appena appresa la notizia. Le agenzie, infatti, hanno battuto una sua prima dichiarazione nella quale parlava della scomparsa di Costanzo come quella di un padre: «È terribile, è morto nostro padre, tuo padre, mio padre, l’inventore della nostra tv». Giudizio che con il passare delle ore è andato razionalizzandosi, in una narrazione a metà tra la critica e il sogno che ci regala quando lo intercettiamo noi, a metà pomeriggio. «Stiamo parlando di una morte apparente» ci spiega con una malinconia non mesta. «Qualcosa che ha a che fare con l’arte».

D’altra parte il Maurizio Costanzo Show, contenitore quarantennale di storie, parole, vite di persone famose e non famose, ha raccontato l’Italia proprio utilizzando il palcoscenico di un teatro: il Parioli di Roma. «Non muore uno che come lui ha inventato un genere» - prosegue. «Un genere che parte dall’informazione, la porta in un teatro dove l’informazione diventa così finzione per essere proiettata in televisione. Ha creato un modo per far interagire la realtà che lui raccontava con la vita di tutti. I suoi personaggi sono personaggi in cerca d’autore dei quali lui capisce il talento e vuole che abbiano successo perché il successo di quei personaggi, anche il mio, diventa il successo suo. Costanzo, infatti, sa come riuscire a non compiacersi delle sue capacità, rallegrandosi però per la riuscita dell’impresa. Perché lui è stato anche un grande impresario. È stato capace di scoprire, proprio come farebbe un critico d’arte, delle persone fino ad allora sconosciute».

 

 

 

Eppure, ci racconta Sgarbi anche con Costanzo non mancarono i momenti di confronto forte. «Nel 1987 si arrabbiò con me perché contestai proprio il suo metodo che mi sembrava troppo aperto a casi non eccezionali. Poi nel 1989 feci filotto dando della stronza a una preside, dicendo che volevo vedere morto Zeri e facendo piangere Letizia Battaglia, allora assessore a Palermo. Io creavo più vita del racconto stesso che lui portava a teatro, incrociandolo con la realtà. Lui però aveva la capacità di riconoscere la varietà dei personaggi, facendoli diventare attori di vite nuove». Finì insomma che anche Sgarbi fu scoperto e valorizzato attraverso il proscenio del Parioli: «Lui era contento di quello che accadeva. Anche perché con me accadeva sempre qualcosa. Era un modo perché la sua televisione non apparisse come una fotocopia o una telecronaca ma come il luogo dove si affermavano forze impreviste e nuove». 

 

 

 

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