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Max Gazzè? Il cantante anti-Berlusconi finisce nei guai per la sua piscina

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Claudia Osmetti
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Il solito abuso (edilizio). Nel senso che non è il primo e tantomeno sarà l’ultimo: solo che, in questo caso, riguarda un volto noto, cioè un cantante di successo, cioè Max Gazzè. Pizzetto oramai brizzolato e capelli arruffati, Gazzè è uno che si è sempre dichiarato di sinistra anche se «non canto la politica perché non mi interessa» (e va bene così: ché a suonarsela, la politica, spesso ci pensa da sola). Una piscina abusiva e un maxi soppalco, in quel suo casale a Campagnano, nell’area metropolitana di Roma, dove vive tra una tournée e l’altra, che gli ha quasi raddoppiato la cubatura della casa. Non uno, ma più abusi edilizi. Per questo il Comune ha aperto un contenzioso, e sono quasi vent’anni fra avvocati e perizie e carte bollate per ottenere un condono; per questo, lo scorso 17 febbraio, è stato condannato dal Tar, il tribunale amministrativo regionale, a risarcire il municipio e fine della strimpellata. Anzi no, “lo spettacolo deve continuare” perché adesso c’è ancora il Consiglio di Stato e lui, Gazzè, pare intenzionato ad andare avanti.

Una questione di rogiti, burocrazia e tempi infiniti: la prima richiesta di regolarizzazione la avanza il precedente proprietario, qualche mese prima del luglio del 2004, quando in effetti il cantautore compra quella tenuta sul lago di Bracciano (il posto è incantevole, in mezzo alle colline) e iniziano i guai con l’ufficio Urbanistica. La piscina, la chiusura del portico, il sottopalco che addirittura modifica la sagoma dello stabile, il magazzino a cui bisogna cambiare destinazione d’uso, non più agricolo ma residenziale: un vortice di lavori, di lavoretti, di ristrutturazioni che secondo il Comune di Campagnano non sono conformi alle norme e alle prescrizioni e secondo la richiesta di condono rientrano nella manutenzione straordinaria. Con quell’aspetto, che è un po’ la legge del contrapasso, che in tutto questo cancan di documenti e geometri e architetti, il condono sul tavolo, per la casa di una delle chitarre schierate a sinistra, è persino quello di Berlusconi (emanato nel 2003), non quello della Regione Lazio, che ha maglie più strette, paletti più rigidi. E dire che lui, Gazzè, in un intervista all’Huffington Post del 2020 si sfogava: «Se devo dire di temere qualcosa, temo più Berlusconi che Grillo».

 


Epperò parte la banda, tutta. Un fracasso. La richiesta è del 2004, il primo rigetto è del 2010 (sei anni dopo), il tar si esprime solo adesso (che è il 2023 e quindi, dal principio, di anni ne sono già passati diciannove). Una vita. I giudici amministrativi dicono che Gazzè dovrà risarcire il Comune di Campagnano di 5mila euro: diciannove anni e 5mila euro, pare una barzelletta. Destinata persino a non concludersi qui perché (come detto) c’è il Consiglio di Stato, c’è l’appello, c’è un braccio di ferro che tiene duro. Possibili sanatorie, difformità di titoli, abusi che manco si riesce a calcolare perché «la sola cubatura del piano soppalcato» (sostiene il tar) «avrebbe determinato un incremento dei volumetria pari a 256,56 metri cubi, per un totale dello spazio occupato dall’ampliamento abusivamente realizzato pari a 431,56 metri cubi», che tradotto significa che le violazioni potrebbero essere il doppio di quelle effettivamente denunciate. Signori, vediamo di parlarci chiaro: le regole servono perché altrimenti c’è l’anarchia e, nell’anarchia, regna il caos. Però non devono neanche rimanere ostaggio di una burocrazia che impiega due decenni a capire cosa sia successo o che rende complicato quel che non lo è. Come rifare un porticato. Vai a spiegarglielo, mica a Gazzè che (immaginiamo) l’avrà capito benissimo: ma vai a spiegarglielo ai tanti piddini, grillini dell’onestà-onestà, sinistrati più o meno convinti ai quali basta la parola, condono, per avere un attacco di orticaria e cominciare a sbraitare che era colpa di Berlusconi (prima) ed è colpa di Salvini (adesso). Vai a spiegarglielo che non è una parolaccia, che sì le norme sull’edilizia vanno rispettate (sennò poi succedono i disastri), ma che serve anche un minimo di flessibilità, di elasticità. E che, comunque, vent’anni per trattare un singolo caso, non sono un tempo accettabile.

 

 

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