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La Rai vede Gaber tutto a sinistra

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 Giorgio Gaber

Luca Beatrice
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«Io ero di sinistra. Gaber molto meno». Basterebbero queste parole di Sandro Luporini, pittore della Metacosa e stretto collaboratore del cantautore milanese che ancora vive a Viareggio, per mettere fine alla questione: a chi appartiene davvero Giorgio Gaber. E lo ricorda come un piccolo borghese convinto che le questioni personali, il cosiddetto privato, contasse più della politica.

A tale conclusione Gaber ci arriva nella seconda parte degli anni ’70, in particolare con una canzone, Quando è moda è moda, che segna la spaccatura definitiva con i movimenti dell’estrema sinistra, la loro falsità, l’ipocrisia, il conformismo: se la prende con tutti, non risparmia nessuno e il pubblico impegnato resta interdetto, non sa come reagire, qualcuno lo contesta, chi ha più coraggio applaude a denti stretti alla propria cattiva coscienza. Con quel disco, Polli di allevamento (1978), nasce un altro Gaber, quello definitivo, le cui parole continuano a provocare un certo imbarazzo negli antichi sodali: Pierluigi Bersani, Gino & Michele, Mario Capanna, Ivano Fossati, Gianni Morandi, tra gli intervistati, insieme a più giovani Fabio Fazio, Jovanotti, Claudio Bisio del documentario Io, noi e Gaber diretto da Riccardo Milani e passato con ottimi risultati d’ascolto su Rai 3, la sera del 1° gennaio, dopo la presentazione alla scorsa Festa del Cinema di Roma.

Il Signor G se ne andò, ancora troppo giovane, esattamente 21 anni fa e non fece in tempo a cogliere i cambiamenti di un nuovo mondo che si stava affacciando, con un diverso linguaggio e un progressivo depauperamento delle ideologie. Destra sinistra, quella sua canzone che fece tanto ridere per l’elencazione di ogni possibile luogo comune nella teoria degli opposti, col tempo ha perso in efficacia, così come le celeberrime invettive, cominciate proprio con Quando è moda è moda e culminate nel disilluso monologo di Qualcuno era comunista, rimangono una traccia culturale del tardo novecento o poco più. Bisogna avere una certa età, insomma, per capirle davvero.

Eppure non è finito il tentativo di reclamare l’appartenenza di Giorgio Gaber, anzi proprio questa sua componente eretica, inclassificabile, qualcosa che andava di passo con il personaggio qualunquista del Borghese piccolo piccolo, meraviglioso e durissimo film di Mario Monicelli, stimola ancor di più il desiderio di assumerlo come proprio. Gaber è stato tante cose: rocchettaro, musicista raffinato, cantautore, presentatore televisivo e in particolare l’inventore del Teatro canzone, una forma di spettacolo che prevedeva l’attore solo in scena tra monologhi, melodie e un’attenta regia. Lui, da parte sua si dichiarava di sinistra, precisando però che nessuno riusciva a farlo incazzare come quelli di sinistra. Resta un borghese del nord, fondamentalmente benpensante, infastidito dagli estremismi. «L’uomo è quasi sempre meglio rispetto alla propria ideologia», ha scritto in uno dei suoi pezzi più belli, il Ritratto dello zio fascista. Io, noi e Gaber ha il difetto di essere troppo lungo (con un grave difetto, la mancanza dei sottopancia, così se non riconosci uno sono fatti tuoi) e meno lirico rispetto a Jannacci. Vengo anch’io, la cui visione complementare aiuterebbe a mettere a fuoco ancor meglio il fenomeno Milano, di quanto la città lombarda abbia dato negli anni ’60 al mondo della musica e dello spettacolo in Italia. A tratti pare addirittura non sia proprio la tazza di the del regista e degli autori, che forse non sono entrati abbastanza nei testi di Gaber per capirne il continuo spirito di contraddizione. Nella fretta di farne una questione di noi (ma più probabilmente di voi, perché i gaberiani d’Italia sono tanti e non sono solo quelli di Rai 3) ci si è dimenticati di attribuire il giusto ruolo a Ombretta Colli, che gli fu accanto una vita intera. Attrice, cantante, attenta ai temi del femminismo, impegnata in politica dal 1994 in Forza Italia. Una carriera di prim’ordine, macchiata da un peccato originale chiamato Berlusconi. Magari non ha voluto parlare lei nel film, lasciando il ricordo del marito ai tanti che gli volevano bene, non solo all’intellighenzia del fu terzo canale: Gaber come patrimonio comune, di tutti e di nessuno, senza sciogliere i dubbi. «È evidente che la gente è poco seria, quando parla di sinistra o destra». 

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