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Campiello, un altro premio che si piega al criterio dell'inclusività

Daniele Dell'Orco
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Non per forza scontata la vittoria di Federica Manzon al Premio Campiello. Col suo Alma (Feltrinelli, pp. 272, euro 18), l’unica scrittrice della cinquina trionfa ottenendo 101 voti sui 287 espressi dalla Giuria dei Lettori anonimi (in 13 non hanno espresso preferenze). Segno evidente che anche gli altri finalisti che si contendevano l’ambita “vera da pozzo” erano pienamente in corsa: Antonio Franchini (Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio), che ha ottenuto 78 voti, Emanuele Trevi (La casa del Mago, Ponte alle Grazie) con 66 voti, Michele Mari (Locus Desperatus, Giulio Einaudi editore) con 33 voti e Vanni Santoni (Dilaga ovunque, Editori Laterza) con 6 voti.

Scontatissima, invece, è stata la dedica dell’autrice pordenonese alla luce delle cronache di questi giorni: «Visto che è un libro nato nei confini lo vorrei dedicare a tutte le persone che hanno attraversato i confini, soprattutto il Confine Orientale di Trieste e che lo fanno immaginando e sognando un presente migliore in un momento in cui a Trieste prima ancora che in altre parti di Europa, Schengen è stato sospeso». Un j’accuse verso l’Italia che vorrebbe dipingere il nostro Paese come campione di respingimento, quando invece a Trieste, dove comunque la rotta balcanica è più che mai viva, quando arrivano le centinaia di migranti che attraversano almeno un altro Paese Ue, baciano a terra, visto ciò che hanno passato altrove. La 42enne friulana, in un romanzo intriso di conflitti di identità e culture, non lo dice.

 

 

La protagonista, Alma appunto, è costretta a tornare a Trieste dopo la morte di un padre che non ha mai compreso e che ha svolto un ruolo nella sua scelta di preferire il cosmopolitismo alla provincia. Qui non solo rievoca le vicende personali, ma anche il dramma della guerra che ha devastato i Balcani negli anni Novanta, la dittatura di Tito, la rivoluzione. Pagine di storia che la protagonista non solo non ha vissuto in prima persona ma nemmeno nei racconti di suo padre, che, forse per affinità spirituale, ne parlava in privato con Vili, il figlio di amici di Belgrado, portato via dalla cittadina perché potesse vivere un’infanzia al sicuro.

Con questo gancio storico Manzon inserisce riflessioni sui conflitti, anche attuali, e sulla violenza che comporterebbe la rivendicazione di un’identità nazionale. Da qui il solito interrogativo: a che serviranno mai questi confini se non solo a scatenare guerre e creare disparità? Tanto vale abbracciare l’individualismo borderless petaloso. Messaggio plaudito da una giuria guidata da Walter Veltroni e da tutto un giro di intellettuali liberal italiani di cui la stessa Manzon fa parte. Del resto pubblica con una major, Feltrinelli, e lavora per un’altra, Gems. Quindi il mainstream del mainstream. Ma ancora oggi, dall’altra parte di quel Confine Orientale, tanto in Slovenia quando in Croazia, Bosnia, Serbia e Ungheria, altro che Campiello.
L’avrebbero premiata con una ben altro.

 

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