In quel controsenso geografico e valoriale che sono oggi l’Europa in generale e la Francia macroniana in particolare, accade anche che si materializzi una bizzarra forma di sharia sulla Promenade de la Croisette. Senza (per ora?) la forma religiosa coranica, ma con analoga sostanza terrena: dirigismo dell’abito e del comportamento, mortificazione del corpo della donna, sessuofobia. Sono i Lumi improvvisamente puntati verso lo specchietto retrovisore, o forse arrivati in fondo al proprio compimento: il politicamente corretto ipermoderno come il fondamentalismo più arcaico. Sta di fatto che la notizia è uno schiaffo al libertinismo di tradizione francese: al Festival di Cannes che ha debuttato ieri è in vigore un Codice di abbigliamento. “Regole di dress code”, le hanno chiamate gli organizzatori sul sito ufficiale della kermesse, e certo suona meglio. Eppure, la nuda (pardon mesdames et messieurs, coperta, stracoperta, intabarrata) cronaca riporta le seguenti prescrizioni.
«Per motivi di decenza» (resterebbe da chiarire chi stabilisce i suoi criteri e perché, forse si affacceranno sul red carpet pattuglie della polizia morale, Cannes come periferia di Teheran) è anzitutto proibita qualunque forma di “nude look”: no agli abiti trasparenti, no a divertissement tra (molta) realtà e (poca) immaginazione, caso di scuola quello di Bella Hadid l’anno scorso. Un attentato alle coronarie di qualunque maschio non sessualmente fluido, indubbiamente, ma anche una rivendicazione della bellezza e fin della sua ostentazione, ormai fuori moda nella Francia multiculti.
QUESTIONE DI CENTIMETRI scarpe col tacco o sandali, «purché eleganti». In ogni caso, saranno da respingere in quanto sovversivi atti come quello della splendida Julia Roberts del 2016, a piedi nudi sul tappeto rosso (elegantissima, ma vallo a spiegare alle suddette teste). Oltre agli spacchi vertiginosi (ne esistono forse di altri?) e alle scollature generose (ne esistono forse...?), la mannaia del cinematograficamente corretto si abbatte anche sui selfie con i fan, severamente vietati. Di nuovo, rimbomba una straniante assonanza con regimi non laicissimi, vedi quello dei Taliban afghani, che hanno vietato la pubblicazione sui media di immagini che ritraggono esseri viventi.
Del resto, c’è una controprova inoppugnabile che dimostra il disagio dell’attuale dirigenza del Festival con l’immagine (di più, in questo caso siamo all’archetipo) della donna. Sta nelle parole del delegato generale Thierry Frémaux contro (la penna s’inceppa, non vorrebbe scriverlo) Brigitte Bardot. Ora, vero che la divina ha criticato l’evento («è sociale, è brutto, non è un sogno»). Ma sentenziare «Non credo che abbia la minima competenza per parlarne, se non come spettatrice» oltrepassa di anni luce la soglia del ridicolo, già abbondantemente assicurata dalla censura sul vestiario.Siamo alla negazione della carne e della storia del cinema francese, che BB ha rappresentato come nessuno. «Et Dieu créa la femme», titolò Roger Vadim il film che ne consacrò il mito. Non avrebbe mai pensato che, decenni dopo, Cannes avrebbe disfatto ciò che Dio aveva creato.