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Derby a Sesto San Giovanni, Inter e Milan rischiano il trasloco da San Siro

Cristina Agostini
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Prendere o lasciare. Far soldi per acquistare campioni oppure attaccarsi al passato e ritrovarsi con undici pippe in campo. Abbattere e ricostruire San Siro, per evitare di rimanere con uno stadio inutilizzato mentre Milan e Inter fanno fagotto e traslocano tristemente a giocare a Sesto San Giovanni, in mezzo alle aree dismesse del grigio passato industriale lombardo. Giovedì mattina le società calcistiche milanesi presenteranno i loro progetti per il nuovo stadio. Parliamo di investimenti per un miliardo e 200 milioni di euro, per realizzare oltre al nuovo impianto anche una gigantesca cittadella dello sport: un centro commerciale, un hotel, uffici, ristoranti e così via. Lusso vero, che però continua a non convincere i nostalgici. In tanti sognavano un destino diverso per il Meazza: il sindaco Giuseppe Sala ha provato a mediare, le opposizioni hanno fatto il loro lavoro e si sono opposte. Le trattative, però, ormai sembrano concluse: o si parte o i nuovi proprietari cinesi e americani molleranno il colpo. Via da Milano. In città resterebbero il Brera Calcio, l' AS Niguarda e l' Arca di Inganni. Difficile che possano riempire una cattedrale sportiva da 90mila posti. Ai tifosi, tuttavia, resta una domanda in mente - che anche Libero ha provato a porre con insistenza - ovvero se non si potesse fare qualcosa per evitare la rottamazione. Abbiamo "la Scala del Calcio", perché non valorizzarla, magari ristrutturando. Le due società rispondono di no. Sistemare l' impianto esistente è possibile, ma ha un' enorme controindicazione: dove si gioca durante i lavori? Milan e Inter preferirebbero scendere in campo a Parma per tre anni piuttosto che affrontare un campionato in mezzo ai cantieri. In qualche altra città, per esempio a Udine, ha funzionato, ma qui c' è un impianto da 60mila posti da edificare, è un' altra cosa. Il piano, quindi, resta quello di iniziare a costruire di fianco all' attuale stadio, che resterebbe in funzione fino a fine lavori. Al termine il trauma: via le ruspe. Lo hanno fatto a Londra con Wembley, dove il calcio è nato. Si può fare anche qui. Uno dei due progetti in corsa prevede di salvaguardare almeno il prato del vecchio stadio. Ma non è quello più apprezzato. Un altro prevede di costruire una struttura quadrata, con delle colonne che dovrebbero ricordare il Duomo di Milano. E al posto del vecchio stadio due torri, una per gli uffici di Milan e Inter (anche questi in condivisione) e una per un albergo. Un nuovo quartiere moderno, usufruibile sette giorni a settimana. Mentre oggi a partita finita la zona diventa spettrale. La fine del Meazza, ovviamente, arriva per una questione di denaro, necessario per tornare a comandare in Europa. Oggi Milan e Inter incassano 35 milioni di euro sfruttando le partite casalinghe. Le "grandi" d' Europa superano i 100 milioni. E la differenza sta proprio nel tipo di costruzione. San Siro è immenso, ma la gran parte dei posti viene venduta a prezzi popolari. I nuovi proprietari cinesi e americani, però, hanno bisogno di altro. Intendono costruire una struttura con ben 9000 "corporate", da vendere a prezzi stratosferici alle aziende. Non si compra solo l'ingresso, ma una giornata di esperienze, tra cena, visita ai musei e alle strutture. Funziona? In tutto il resto d' Europa sì. Ovviamente nella questione di San Siro c' è molta politica. Giuseppe Sala ha paura che dare il via libera a San Siro gli costi molto in termini di voti. Il Pd teme che costi ancora di più far scappare le due squadre alla città. Il centrodestra punta sulla nostalgia: la Lega vorrebbe trasformare in patrimonio Unesco il Meazza per salvarlo dalla demolizione. Uno scenario già visto: tutte le grandi trasformazioni urbanistiche milanesi hanno sempre qualche scettico sulla loro strada. Per anni a Milano tanti politici hanno lottato per salvare un' area infestata dai rom (le Varesine) che è stata trasformata nel quartiere dove sorge la torre Unicredit (anche i non milanesi l' avranno vista in tv centinaia di volte). Nessuno oggi rimpiange la scelta di costruire. Per usare le parole del presidente rossonero Paolo Scaroni, «Qui non siamo in Italia, qui siamo a Milano», bisogna avere coraggio di cambiare. di Lorenzo Mottola

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