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Juventus, perché Maurizio Sarri questo scudetto se lo merita tutto: il commento di Fabrizio Biasin

Fabrizio Biasin
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Il luogo comune più minchione dell'universo pallonaro, abbonda nei Bar Sport innaffiati di vin rosso: «Al posto di Sarri lo scudetto lo avrei vinto anch' io». Codesti avvinazzati dicevano la stessa cosa di Allegri e il dramma è che in molti casi non la buttano lì «tanto per», ma ci credono davvero. Capiamoci, amici e lettori: non è così. Se per un qualsiasi motivo io e te ci ritrovassimo ad allenare i 9 volte campioni d'Italia di fila, questi non arriverebbero mai al 10° titolo, perché io e te non saremmo in grado di gestire Ronaldo e compagnia danzante, né in campo né tantomeno fuori. Bene, se dopo questo rimbrotto siete ancora convinti che non sia così, allora è probabile che la vostra sia banalissima invidia dovuta al fatto che lui guadagni 6 milioni di euro per fare il vostro lavoro.

Fine del preambolo. Maurizio Sarri ha portato a casa lo scudetto, il suo primo, il 36° della Juve. Ci è riuscito a un anno dal trionfo con il Chelsea in Europa League. Allora si disse: «Ha vinto nonostante avesse mezzo spogliatoio contro, ma quella squadra era troppo forte per perdere». Oggi si dice: «Ha vinto pur con tutto l'ambiente contro». Può darsi che sia così e, allora, il merito è doppio. Maurizio Sarri effettivamente mal si sposa con l'universo zebrato: ha un'idea di calcio ambiziosa che può trasmettere agli "ubbidienti" Insigne e Callejon, non certo a sua santità Ronaldo, abituato da un paio di lustri a fare (giustamente) quello che vuole. Una volta insediato sulla panchina più prestigiosa, i suoi dirigenti (Nedved e Paratici) avrebbero dovuto aiutarlo portando a casa una punta da 20 gol e un centrocampista «alla Jorginho», non hanno fatto né l'una né l'altra cosa. Anzi, Sarri si è dovuto adattare a una rosa sì fortissima, ma rasa di giocatori da allontanare. Se ci aggiungete la polmonite di inizio stagione (un mese, il più importante, senza allenare) capite bene che alla concorrenza all'epoca si leccarono i baffi («vuoi vedere che quest' anno qualcosa concedono?»). E infatti è andata così, qualcosa la Juve ha concesso, ma non abbastanza per far sognare Inter, Atalanta, Lazio, Roma, Milan, Napoli.

Il dato di fatto è che Sarri, pur con tutti i suoi limiti (le parolacce, l'incazzatura perenne, lo stile non proprio oxfordiano) ha portato a casa il suo 1° tricolore e lo ha fatto abiurando al suo credo pallonaro. Il «giochiamo bene e vinceremo!» ha lasciato spazio al ben più sabaudo «vinciamo e prima o poi giocheremo bene». In definitiva è stato molto più pragmatico lui di chi lo ha prescelto. Questa cosa secondo molti potrebbe precludergli la riconferma che, invece, non è in discussione a patto che il nostro qualifichi la Juve alla fase-portoghese dell'imminente Champions. Se poi venisse ugualmente spedito al confino, di tutta questa storia resterà l'immagine di un tecnico che comunque il suo scudetto l'ha vinto e quella di una società che ha perso la sua vanitosa scommessa («vincere non ci basta più, vogliamo essere belli!»).

 

 

A torneo archiviato, in definitiva, possiamo dire che la Juve ha sbagliato a rinunciare ad Allegri, suo tecnico ideale, ma possiamo altresì dire che a fronte di quell'errore Sarri è riuscito a portare la nave in porto e davvero non è poco. L'immagine del mister tabagista che al triplice fischio si ritrova spaesato, quasi come volesse dire «scusate, non volevo vincere», è la riprova che il matrimonio tra le parti è stato forzato e potrà funzionare solo e soltanto se a monte decideranno di assecondare l'allenatore nelle sue minime richieste tecnico-tattiche. Il paradosso è che «farlo» significa mettere a rischio la vittoria che, però, a Torino è da sempre «l'unica cosa che conta». Un bel casino, insomma. Morale della favola: il nono scudetto filato non è arrivato «nonostante» ma neppure «grazie» a Sarri, che ha vinto grazie a una sorta di auto-castrazione tattica. Per qualcuno tutto ciò significa che questo non è lo scudetto del sor Maurizio; per noialtri, al contrario, lo è due volte, perché dimostra l'intelligenza di un uomo che pur di entrare nella storia del calcio (lo scudetto, piaccia o non piaccia, ti consegna agli almanacchi) ha saputo fare un passo indietro rispetto al suo dna. Sarri poteva fare la fine del buon Maifredi e, invece, da domenica assomiglia un po' di più a chi lo ha preceduto. 

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