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Tommaso Ghirardi, gli otto anni alla presidenza del Parma e poi la fine: "Che errore vendere"

Vanni Zagnoli
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La storia è zeppa di personaggi che hanno portato l'azienda sul lastrico per finanziare la propria società sportiva. Tommaso Ghirardi è il più impopolare, presso la propria ex tifoseria del Parma («Se temo intimidazioni per questa intervista? Ma no, un conto sono i cori da stadio, un altro sono le situazioni di persona. La tifoseria che ho conosciuto è sana, capirà»). Eppure sono passati cinque anni dal fallimento, dalla retrocessione in B e dalla ripartenza in D. «La mia Leonessa (l'azienda di famiglia, ndr) è sanissima. Ho commesso un unico, grande errore, cedere il club all'albanese Rezart Taci, peraltro gratis. C'erano 60-70 milioni di passivo, 25 dei quali a una mia controllata, dunque 35-45 reali, non 180: il margine per evitare il fallimento era amplissimo. Invece lui lasciò a quel Manenti, bresciano che non conoscevo. Ho già chiesto scusa tante volte».

Serviranno decenni, forse, per riabilitarla. Eppure dal 2006 aveva speso tanto...

«Venivo dopo Calisto Tanzi, pagai 12 milioni, in più me ne accollai 16 di debiti. Sono stati 8 anni e mezzo di soddisfazioni, anche. Avrei dovuto frequentare i salotti bene della città, pago questa ritrosia. Chi arriva da fuori non ha vita facile, lo dico anche al nuovo proprietario, Kyle Krause. È come avesse comprato Parma, perché il Parma rappresenta la città nel mondo: si prepari a qualche scherzetto dai poteri forti locali, prima o poi arriveranno, stia attento».

Già, l'Europa a lei sfumò per un debito di 265mila euro. A favore del Torino di Urbano Cairo, che poi sarebbe diventato proprietario della Rcs. Ghirardi, quante volte aveva chiesto aiuto agli imprenditori ducali?

«Tante, appunto, ma la risposta era flebile. Avevamo festeggiato il centenario con la successiva qualificazione in E-League, mi è stato impedito di disputarla, lì ero talmente disgustato che ho deciso di non investire più. Serviva freddezza, accettare la retrocessione, restare e aspettare un acquirente serio. Non ho mai portato via un euro dal Parma, è certificato da ogni tribunale».

Persino la Figc le aveva raccomandato Taci...

«Era sponsor del Milan, era la persona giusta. Io pagai 13 milioni di stipendi, a settembre, non avevo lesinato gli investimenti. Taci fece anche un buon mercato, a gennaio».

Tommaso, lei in primo grado è stato condannato a 4 anni di carcere per bancarotta fraudolenta...

«Aspettiamo gli altri due gradi di giudizio. Ho già pagato tutte le spettanze, sarà confermata la mia non responsabilità su varie accuse. I due maggiori imprenditori tra i sette di Nuovo Inizio (la società che riunisce i sette industriali parmigiani che hanno rifondato il club nel 2015, ndr) avrebbero potuto costruire un grande Parma assieme a me, anziché accompagnarlo al fallimento con Taci».

Perché lei finisca in carcere servirebbe una condanna superiore ai 4 anni. Rischia soltanto l'ad dell'epoca, Pietro Leonardi, che ha preso 6 anni.

«Per notorietà, ci si ricorda solo di noi, non degli altri 20 e passa condannati. Una pena di poco inferiore alla mia è stata comminata a un dirigente chiave dell'attuale Parma...».

Che è Marco Ferrari, giornalista, che è tra i sette di Nuovo Inizio che mantengono ancora il 9 per cento del club.

«Le condanne confermano che le decisioni non erano solo mie, il cda fu reso partecipe di ogni risoluzione».

Lei accusa i potenti di Parma (ma in realtà lei stesso era entrato a far parte dell'unione parmense degli industriali): che altro fecero?

«Chiedete a Giuseppe Corrado, imprenditore delle sale cinematografiche che poi prese il Pisa anziché il Parma perché gli stessi poteri forti glielo impedirono».

Voleva evitare il fallimento e poi aggiudicarsi il titolo sportivo, andato invece a Barilla e a buongiorno.it, a Erreà e alla Pizzarotti, a Ferrari e all'avvocato Malmesi, al costruttore Dallara.

«Furono parole di Corrado, ci eravamo confrontati a lungo nel tentativo di provare a salvare il club, ma era già stato tutto scritto».

Ovvero che ripartissero quei grandi nomi dalla serie D.

«E adesso la cessione è avvenuta anche per i 70 milioni di debiti, più 30 milioni pagati a Nuovo Inizio. Io avevo resistito più a lungo e quasi soltanto con le mie forze. E in società restano tante figure della mia gestione».

Tornasse indietro non si prenderebbe, per esempio, il Brescia?

«La mia entrata nel calcio non fu casuale, non sono pentito. Con la squadra del mio paese, Carpenedolo, passammo dalla Terza Categoria ai playoff per la promozione in C1».

Stupisce che la ricchissima Upi (Unione Parmense degli Industriali) non avesse provato a salvare la società.

«Nel 2012 andai a cena con quasi tutti i 7 di Nuovo Inizio, proponendo di lasciare loro il 51%, gratuitamente, per creare un Parma sempre più forte. Due anni più tardi, dopo la privazione dell'Europa League, volevo regalare la maggioranza a due fra questi. Non sostenevo più il peso economico per la batosta morale. Lo sanno l'Upi e il sindaco Federico Pizzarotti».

I tifosi le rimproverano di non avere vigilato sull'operato di Pietro Leonardi.

«In serie A rimangono 12 giocatori usciti dal nostro settore giovanile o dalla sua politica, a partire da Lapadula».

Ha mai pianto, per il crac del Parma?

«Tante volte, anche adesso, se penso a come sono ricordato dai tifosi. Le lacrime sono liberatorie, di rabbia, non di debolezza».

A chi resta legato?

«Giovinco, Crespo, Cassano. Ranieri, Guidolin e Donadoni. Ebbi la fortuna di cenare due volte a casa di Berlusconi, vari pranzi con De Laurentiis. Con Andrea Agnelli sono coetaneo, sms di complimenti. Con Galliani i rapporti erano buoni, quegli 8 anni di serie A mi avevano portato anche in consiglio di Lega e della fondazione Coni. Ogni reincontro è affettuoso».

Ultima domanda secca: è lei il finanziatore occulto del Brescia?

«Fantasie. Ero amico da prima di Massimo Cellino, c'era stima anche nei confronti del padre Ercole. Sono una delle più grandi famiglie del calcio italiano»

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