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Fiorentina, le lezioni di Italiano profumano d'Europa: i segreti di un "giocattolo" vincente

Claudio Savelli
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Vincenzo Italiano era la seconda scelta della Fiorentina dopo Gennaro Gattuso, che a Firenze sbarcò ma poi se ne andò prima di cominciare. La causa? Divergenze sulle strategie di mercato. Strategie che Italiano, da par suo, ha accettato senza colpo ferire, anche perché se per Rino la Viola era un passo indietro nella parabola della carriera dopo il Napoli e il Milan, per Vincenzo è stato invece l'ideale balzo in avanti dopo l'impresa con lo Spezia, salvato a suon di bel gioco e concretezza. Sono gli stessi due elementi che ha imposto nella Fiorentina e che rendono questa squadra un riferimento in Italia su come si produce calcio oggigiorno, coniugando i risultati in campo alle esigenze aziendali. 

 

Italiano non richiede giocatori, come fece Gattuso, ma valorizza quelli che ha per guadagnare credito con il presidente e farsi ingaggiare poi prototipi ideali. A seconda di chi arriva, varia il modo di giocare della squadra, senza però rinunciare ai principi di base: «Temevo che Vlahovic fosse l'unico terminale offensivo giusto per noi, ma non era così: abbiamo dimostrato anche che con altri tutto può continuare». Con Piatek o Cabral è costretto a lanciare meno palloni in aria rispetto a quando aveva il centravanti ora della Juve, e la Viola velocemente si è adattata ad un gioco più avvolgente. Flessibilità, questa sconosciuta per molti allenatori, conosciutissima per Italiano. Pur senza un'identità altrettanto profonda - anzi, proprio per questo motivo- la Fiorentina si candida come "nuova Atalanta". 

Merita questo ruolo anche perché è la prima ad aver battuto la Dea di Gasperini tre volte su tre nella stessa stagione. E lo merita non solo per Italiano ma anche perla gestione societaria e aziendale, che ricalca il modello bergamasco: valorizzare i migliori, venderli a caro prezzo e reinvestire il ricavato su nuovi giocatori funzionali, per alimentare la fiamma accesa da Italiano e nutrire le ambizioni. Nonostante qualche serpeggiante critica, la gestione Commisso sta dando frutti dopo un periodo di semina piuttosto lungo. Gli 80 milioni (bonus compresi) incassati da Vlahovic sono un capolavoro, considerando che non avrebbe mai rinnovato il contratto in scadenza 2023, e sono serviti a finanziare tutto il mercato: 23 milioni per Nico Gonzalez, 14 per Ikoné, 14 per Cabral, 15 per il riscatto di Torreira e altrettanti per quello di Piatek. 

 

La somma è pari a 81, e tutto torna. E tornerebbe anche con la cifra sborsata per il Viola Park, secondo Commisso «il centro sportivo più bello mai costruito in Italia»: costerà 85 milioni e vedrà luce a fine anno, spingendo la Fiorentina in una dimensione europea. Nel giro di un anno, la Viola è passata dall'essere una squadra da zona retrocessione a una da zona Champions. I punti conquistati sono già 42, due in più dei 40 con cui chiuse lo scorso campionato, sollevandosi solo nel finale dalla melma degli ultimi posti: per ritrovare un ritmo simile bisogna tornare alle annate 2012/13 e 2014/15, la prima e l'ultima della gestione Montella, entrambe chiuse poi al quarto posto. Un risultato che allora valeva l'Europa League e che, se ripetuto quest' anno, significherebbe Champions, competizione che manca dal 2010 quando in panchina c'era Prandelli. La Viola sta tornando al livello di riferimento degli anni più recenti, ritrovando quella dimensione di intrusa tra le grandi. Il quarto posto della Juve è ora lontano solo 5 punti, potenzialmente 2 in caso di vittoria nel recupero con l'Udinese. L'Europa è lì. Ora la Fiorentina deve essere all'altezza dei suoi sogni. O meglio, dei suoi nuovi obiettivi.

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