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Ashleigh Barty, un passo indietro per non essere divorata: l'addio perfetto al tennis della numero 1 al mondo

Giordano Tedoldi
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La numero uno del tennis mondiale, Ashleigh Barty, ha dunque deciso, a soli 25 anni, di deporre per sempre la racchetta, quell'arma formidabile con cui di recente ha coronato i suoi sogni vincendo l'estate scorsa Wimbledon, e poi l'Australian Open, prima donna australiana vittoriosa dopo 44 anni. Nel video dove annuncia la sua decisione, la campionessa appare emozionata ma sicura di sé, anche se, come sempre in questi casi, chi può escludere in futuro un ripensamento? 

Ma per ora le sue parole suonano definitive: Ash, come viene confidenzialmente chiamata, ha deciso di «inseguire nuovi sogni», e di voler affrontare la vita come «Ashleigh Barty la persona, non l'atleta», benché, naturalmente, «non smetterò mai di amare il tennis, che è stata una componente enorme della mia vita». Probabilmente però i motivi profondi di questa decisione, che Barty ha avvertito come una «sensazione di pancia» subito dopo aver vinto la finale di Wimbledon, non sono del tutto chiari nemmeno a lei. 

 

Sicuramente dopo aver vinto tutto quello che c'era da vincere viene meno il senso della sfida, e questo rischia di compromettere il proprio impegno, che un vero campione vuole sempre profondere al cento per cento. Viene in mente, saltando a tutt' altra disciplina sportiva, lo scacchista americano Bobby Fischer, che dopo aver battuto il primo giocatore della scuola scacchistica allora ritenuta più forte al mondo, il sovietico Boris Spassky, in un epico scontro ammantato di implicazioni politiche (si era in piena guerra fredda), si sottrasse adducendo vari pretesti a ulteriori competizioni, sostanzialmente dileguandosi a 29 anni dal circuito scacchistico internazionale. Due casi diversi, beninteso, perché Barty lascia pacificata, serena, mentre Fischer apparve misteriosamente non tanto appagato quanto quasi disgustato dall'ambiente di cui era diventato il nuovo sovrano. 

SENSO DI DELUSIONE
A ogni modo decisioni del genere, in un'età così precoce, quando ancora un atleta potrebbe vincere moltissimo, sono davvero rare e capaci di destare tanto ammirazione quanto critiche. Le critiche, che spesso si associano a un senso di delusione da parte dei fan, come quella verso un grande attore o cantante che decida di abbandonare le scene, spesso vertono su una sottile accusa di insicurezza e, quasi, di paura, come se un campione dovesse necessariamente mettersi alla prova, eroicamente, finché un più giovane talento non lo detronizzi; visione un po' gladiatoria in cui si può misurare un certo gusto sadico del pubblico, che in fondo in qualsiasi sport vuole vedere un po' di dramma, di tragedia, se non proprio di sangue. 

 

Le cadute nella polvere dei vecchi idoli, il crollo psicologico delle atlete che scoppiano in lacrime sul campo, sono eventi di cui il pubblico è ghiotto. E Barty, saggiamente, non ha voluto rischiare di offrire un simile spettacolo agli appassionati del suo sport. Lasciando nel pieno delle sue forze, al punto più alto della sua parabola, quando ancora per molti anni avrebbe potuto essere la numero uno, Ash si sottrae anche al cliché del campione che lascia imbattuto dopo una vittoria estrema, al momento in cui tenere il campo ancora per qualche mese potrebbe costargli una figuraccia. E ci pare che sempre più i grandi sportivi si stiano rendendo conto quanto raggiungere il successo sia una felicità molto relativa, e quanto pericoloso sia far poggiare la propria realizzazione umana sul risultato di una partita a tennis, sia pure una finale storica. 

STIMOLI E INTERESSI
Oggi gli sportivi sono sottoposti a un'infinità di stimoli e interessi, e possono legittimamente nutrire altre ambizioni oltre a quelle agonistiche, la loro apertura mentale in un mondo molto più complesso è maggiore, e il continuo stress della competizione, le rivalità, le critiche, la maleducazione crescente del pubblico, insomma quel tanto di aggressività e, appunto, sadismo che si è infiltrato in ogni disciplina sportiva - un tempo ci pare ci fosse molto più fair play e non si fosse ancora entrati nell'attuale ottica da giochi nel Colosseo per la vita e per la morte -, spingeranno, forse, a altri clamorosi ritiri. Avvenimenti che vediamo come segnali positivi, perché possono demolire appunto quell'immagine grottesca, gladiatoria e violenta, del campione attempato che si immola fino allo stremo delle forze a beneficio delle platee fanatiche e, togliendo un pathos esasperato, ricollocano lo sport in quello che in primo luogo dovrebbe essere, un divertimento. E quando il divertimento non c'è più, come ha insinuato Barty, allora perché scendere in campo? Ragionamento che vale anche per molte cose della vita lontane dai campi da tennis.

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