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Danilo Iervolino, "quanto mi è costato salvare la Salernitana": la confessione a Pietro Senaldi

Pietro Senaldi
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«Guai a dire che è stato un miracolo».

Presidente, perdevate 4-0 e per novanta minuti e passa il Cagliari non è riuscito a fare un gol all'ultima in classifica, già retrocessa. Lei come lo chiamerebbe?
«Un risultato voluto fortissimamente e ottenuto con sacrificio, lavoro, dedizione e competenza. Abbiamo giocato negli ultimi mesi un bel calcio, siamo diventati una squadra ferocemente determinata che ha raggiunto un risultato storico che penso vada oltre a quello calcistico».

Con l'aiuto di una bella botta finale di... come si dice a Salerno?
«La fortuna aiuta chi osa, chi affronta con coraggio battaglie che può anche perdere».

 

 

E lei osò...
«A fine dicembre sono stato avvertito che la Salernitana sarebbe stata cancellata dal calcio professionistico se qualcuno non fosse intervenuto. La città era nell'angoscia».

Ma lei era già un grande tifoso?
"Sono nato a Palma Campania, a un chilometro dalla provincia di Salerno e ho sempre nutrito un grande amore per la città e per il calcio, anche se non avrei mai pensato che un giorno avrei investito in una squadra».

Raptus passionale?
«Esattamente».

Lei è anche uomo d'affari: quanto le è costato il non miracolo?
«Dieci milioni per comprare la squadra e altri dieci per ricostruirla, a tempo di record, con undici uomini nuovi».

La Salernitana aveva fatto 7 punti nel girone d'andata. Come ha fatto a farne 24 in quello di ritorno?
«Merito del direttore sportivo, Walter Sabatini, un uomo molto lucido. Vede cose che altri non vedono. E merito del mister Nicola, che ha dato alla squadra energia e determinazione, nuove geometrie di gioco e soprattutto la convinzione di poterci riuscire».

Eppure avete rischiato di cadere sul vostro ultimo metro. Si era persa la magia?
«Siamo arrivati alla fine stanchissimi. E poi ci sono anche un po' tremate le gambe, va ammesso».

Ora sogna Cavani centravanti, da ex tifoso del Napoli. Quanti altri soldi le costerà quest'anno la Salernitana?
«Ancora devo ascoltare i piani di allenatore e direttore generale».

Danilo Iervolino è approdato nel mondo dell'informazione da poco, comprando con Bfc Media il settimanale l'Espresso dagli Elkann. Tuttavia il presidente della Salernitana ha già imparato che le notizie è meglio nasconderle il più possibile e che la realtà, per venderla, va semplificata e anche un po' addolcita. Il treno è in ritardo, il convegno dura tre ore in più, il Cagliari segna al 98' e allontana la salvezza già raggiunta, il direttore del settimanale appena comprato si dimette senza neppure incontrarlo; eppure Iervolino non si scompone, vive gli eventi con filosofia partenopea e ha affettuose parole per tutti. I calciatori sono bravi ragazzi attaccatissimi alla maglia, la crisi dell'editoria è passeggera e la professionalità dei giornalisti non si discute per principio. L'Espresso, manco a dirlo, era lettura abituale già da molti anni prima dell'acquisto e Damilano «è un professionista che mi è sempre piaciuto molto».

Quanto all'Italia che annaspa tra inflazione, Pnrr al palo, poca voglia di guerra e bollette da mutuo, «non è che non veda le difficoltà attuali», taglia corto il presidente, «ma ci attende un futuro roseo, lo si capisce dalle nuove generazioni, ricche di spirito imprenditoriale e creatrici di straordinarie startup. Mi creda, è stato più complicato salvare la Salernitana di quanto non sarà far risorgere l'Italia». A scavare tuttavia, la sensazione è che quando ci sia da fare sul serio, il piglio possa cambiare in un secondo e la faccia della medaglia dell'uomo cordiale ceda il passo a quella del combattente. Iervolino, 44 anni compiuti da poco, un figlio di 13 anni e uno di dieci, è partito a 26 anni, dopo la laurea, fino ad arrivare a fondare Pegaso, la più grande università telematica italiana: lauree, master, corsi di perfezionamento. «Sono figlio d'arte» spiega. «Anche mio padre, che ho perso troppo presto, era un imprenditore attivo nel campo della formazione. Mio fratello invece è avvocato». D'altronde Napoli è distretto forense per antonomasia.

Presidente, d'accordo che ama le sfide impossibili, ma perché ha comprato l'Espresso?
«Sto progettando la mia seconda vita da imprenditore».

È un settimanale a forte connotazione politica...
«Io politica invece non ne voglio fare. Almeno non nel senso che intende lei. Perché in realtà fare l'imprenditore significa fare politica in senso civile: dai lavoro, crei ricchezza...».

E la politica come intendo io?
«Non mi candiderò, non si preoccupi, anche se rispetto i politici. Penso che tra di loro ci siano grandi competenze. Io però ne ho altre».

Perché allora non piacciono?
«Forse dovrebbero ricominciare a condurre gli elettori, anziché seguirli. E poi non riescono a parlare ai giovani e ormai in molti sono diventati poco presenti sul territorio».

A lei la politica potrà non interessare, ma certo non è vero il contrario: il suo telefono squilla parecchio?
«Diciamo che coltivo buoni rapporti. Però l'ingresso nel calcio ha sconvolto la mia vita molto più di quello nell'editoria. Sapesse i miei figli ...».

E poi i giornalisti da scudetto costano meno dei calciatori da salvezza...
«Il calcio drena ogni risorsa, anche emotiva».

Si ispira a qualche editore, a qualche gruppo internazionale?
«No, sono un fan del metodo Iervolino, come nel calcio».

In cosa consiste?
«Lo scoprirà a settembre-ottobre, quando caleremo le carte. Posso anticiparle che imporrò un cambiamento radicale sul digitale e nell'integrazione tra carta, video, sito e social. Realizzeremo un progetto multimediale travolgente. Certo non interverrò sugli articoli, ma sulle tecnologie e sulle modalità distributive».

Perché ha scelto l'Espresso?
«Si è presentata l'occasione, ci stavo lavorando da qualche mese. È una testata storica, un marchio autorevole e di valore, che ha un rapporto dialettico. Spesso critico ma anche di proposizione con le forze politiche, economiche e sociali del Paese ed è dotato di un corpo redazionale capace di fare inchieste vere».

Se sono tutti così bravi, perché il settimanale è in crisi?
«Il problema dell'editoria è che teme l'innovazione. Io confido di cambiare pelle a un settore grigio e asfittico, spaventato da ogni mutazione. I lettori della carta sono diminuiti e la stampa è in crisi per i costi alti di lavoro e produzione, ma il numero complessivo dei lettori in realtà è aumentato esponenzialmente. Bisogna lavorare su questo».

Il problema forse è proprio l'esplosione delle fonti di informazione...
«I social per me non sono una fonte d'informazione. Valgono come i pareri al bar, a meno che non siano utilizzati dai giornalisti. L'informazione la danno solo i giornalisti, necessita di un'intermediazione professionale».

Gli intellettuali di sinistra, che sono un po' i lettori di riferimento dell'Espresso, nonché gli storici senatori del gruppo hanno storto il naso al suo arrivo...
«Suppongo che questo sia avvenuto perché non mi conoscevano e non conoscono i miei progetti e le mie idee».

Ma lei è di sinistra?
«Se in futuro dovessi ritenere di fare qualche endorsement, non mi tirerò indietro. Certo però non intendo condizionare la linea politica dell'Espresso. In azienda le mie decisioni si limiteranno agli aspetti industriali».

Il calcio è passione, l'editoria è business: lei potrebbe diversificare ed editare anche un giornale di centrodestra?
«Quando ero presidente della mia università telematica, arruolavo professori sia di destra sia di sinistra: badavo alla qualità, non a ideologie e schieramenti».

Un giornale però è un prodotto di natura anche politica, è una questione ontologica...
«Al momento non è un discorso attuale ma non escludo che la mia espansione editoriale possa proseguire in futuro».

Ma lei quanti giornali legge?
«Cinque quotidiani, prima di iniziare a lavorare, nella versione digitale. La carta la compro solo nel fine settimana».

E i settimanali?
«Quelli tanti, sono un divoratore di stampa periodica. Svario dal giardinaggio all'economia».

Come dev'essere il giornalista moderno?
«Un produttore di contenuti a tutto tondo, in grado di lavorare su ogni piattaforma, dalla carta ai video, da Internet ai social».

Come giudica lo stato dell'informazione in Italia?
«Io vedo grande trasparenza e ottima qualità».

Non vuol farsi nemici...
«No, il mio giudizio è davvero positivo: abbiamo ottime penne e tanto pluralismo».

Ultimamente l'informazione non è diventata troppo manichea: bianco o nero, buoni o cattivi, torto o ragione?
«È normale che un giornale segua la propria linea. Tanto più che nessuno è possessore della verità assoluta, che secondo me neppure esiste. Non sottovalutiamo il lettore, non è uno stupido e se si informa capisce».

Ma davvero la vede bene per l'Italia?
«Siamo capaci, creativi, empatici e ricchi di imprenditori».

Lo siamo da sempre, ma questo non ci ha impedito di arrivare a un passo dal precipizio...
«Ci sono i prodromi di un rilancio».

Lei è campano, la terra del reddito di cittadinanza, che Draghi e il centrodestra vorrebbero togliere. Cosa ne pensa?
«Sono favorevole a mantenerlo solo a patto che ci siano una revisione e un maggiore controllo: mentre si sostiene chi non lavora bisogna anche fornirgli gli strumenti per occuparsi».

E all'invio di armi in Ucraina, è favorevole?
«Ah ma allora lei me la vuole proprio buttare in politica...».

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