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Ferrari, Jean Alesi lancia l'allarme: "Non perdete Leclerc"

Leonardo Filomeno
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«Mio padre aveva un’officina. Un giorno arrivò una Ferrari Daytona per una riverniciata. Lo annunciò a pranzo, invitando alla cautela me e mio fratello», racconta Jean Alesi con un sorriso.  «Il motore era una roba impossibile. Volevo capire». Il destino dell’ex pilota Ferrari si forgerà da solo, quella passione era già a portata di mano. «Girai la chiave e andai giù pesante sull’acceleratore. La macchina si mise a cantare, letteralmente». Alla vigilia del GP di Monaco l’ex pilota si racconta. Francese di origini siciliane, 58 primavere, è un tipo alla mano. Su quella che definisce «una vocazione» va a fondo. Parla dei 5 anni a Maranello. Gli stessi che l’amico Charles Leclerc si appresta a compiere, al centro di una tempesta senza fine.


Irrealistico per lei immaginarlo altrove.
«Non condivido che debba guardarsi attorno. La Ferrari Academy l’ha formato, è un caso unico. Non sarebbe giusto mollare perché le cose vanno male. Non ha l’età di Alonso. Pensava di avere una macchina per lottare, si è visto rapidamente che così non è. Gli errori come quello di Miami in qualifica complicano le cose. Se il pilota esagera, fa solo danni. Ha bisogno di essere coccolato. Deve crearsi un team per vincere. Solo se un giorno decidesse di andar via, la Ferrari cercherebbe uno come Lewis Hamilton».


Anche ai suoi tempi i team principal cambiavano spesso.
«Quattro in 5 anni. Così non costruisci niente. Vasseur è arrivato tardi, ha trovato una macchina che è quello che è, sta iniziando a mettere assieme i pezzi. Ha esperienza, è giusto che scelga i suoi uomini pescando altrove. A Charles è mancato un entourage. Si è costruito sulla grinta, su un episodio terribile come la scomparsa del padre, che gli ha dato una motivazione incredibile. Quando inciampi, come sta accadendo adesso, visto che guida una macchina difficile e va a sbattere, un padre sportivo alla Vasseur può rivelarsi un figura imprescindibile».

Con Binotto non è andata benissimo.
«Era un uomo Ferrari, nel bene e nel male. Le pressioni erano disumane. Quando le cose andavano male per Charles non era un papà, ma il superiore che doveva far presenti le critiche ricevute».

Parlavamo di vocazione rossa, all’inizio.
«Io e Charles siamo ferraristi aldilà della vittoria. Avrei fatto qualsiasi per restare in Ferrari. A uno che crede in Dio non puoi chiedergli perché lo faccia. Crede e basta. Non mi consideravo un pilota della F.1, bensì della Ferrari. Non vedevo altro. Credo che questo mi leghi a Charles in particolar modo».

Nessun pentimento per non aver guidato una Williams che poi vinse tutto?
“Nessuno. Avevo firmato con la Williams prima dei corteggiamenti della Ferrari, la decisione era presa. La trattativa si sarebbe conclusa solo se Frank Williams avesse esercitato un’opzione entro un certo periodo di tempo. Non avvenne. Giocò su alcune parole del contratto. Lo esortai a cambiare atteggiamento, invano. Voleva Senna, a cui non sarei andato bene, perché Ayrton il compagno lo sceglieva lui».

 

L’amicizia con Montezemolo si fece incrollabile in quel periodo.
«Fu il mio Enzo Ferrari. Quando morì Senna, ospitò me e Berger a casa sua, a Capri: ci fece sentire importanti. Ha una passione incredibile. Un venerdì mi chiamò nel suo ufficio. Aveva un Testarossa blu bellissimo. “Mi serve un favore. A Roma ci sarà l’inaugurazione di una concessionaria Ferrari. Mi piacerebbe ci andassi tu”. Avevo altri impegni, in barca, lo capì dalla faccia. “Ti piace il Testarossa? A Roma vai con quello”. Dirgli di no era impossibile».

Con Jean Todt fu litigio.
«Pignolo su tutto, professionista vero, la sua missione era il trionfo. Però alle mie spalle corteggiò Schumacher. Siglarono un contratto in cui Schumi chiedeva di non avermi in squadra. Non voleva uno che gli desse fastidio. Ci rimasi malissimo. Aspettai per parlargli a quattr’occhi. La frattura fu inevitabile».

Che persona era Niki Lauda?
«Un uomo di gara. E di vita. Nonostante risultasse una persona fredda, parlargli era facile. Percepiva alla stessa maniera ciò che ti succedeva in pista e te lo faceva capire. Sapeva vivere pensando non solo ai numeri per far andar forte una macchina. Amava l’amicizia, le donne, il rischio. La sua vita era quello».

Dirige il Paul Ricard da quest’anno: dove va il pensiero, il primo ricordo?
Sono cresciuto qui, si trova a 150 chilometri da casa. Prima di prendere la patente andavo a vedere i test di F.1. Da pilota, ricordo le Tyrrell: mi piaceva la grinta, la precisione di guida. Non erano la Ferrari, ma il telaio era favoloso. A Ken Tyrrell un volta dissi: “Le mie partenze non ti piacciono?”. “Le adoro, ma non me ne frega granché. Il giro più importante è l’ultimo”».

Cosa apprezza e cosa cambierebbe di un Gran Premio?
«Liberty Media ha fatto un’ottima scelta con Domenicali. La gara sprint mi piace. Il problema è la FIA, che non ha persone con esperienza. Se poi le cambi in continuazione è chiaro che le decisioni saranno ogni volta diverse. Ritengo che il sorpasso debba rimanere difficile. Se apri l’ala e lo fai in un niente, come è successo a Baku con Verstappen su Leclerc, non va bene. Devi rischiare. Eliminerei la comunicazione tra pilota e ingegneri. Chi corre deve arrangiarsi. Come facevamo noi. Siamo passati da uno sport da cowboy ad un controllo estremo su tutto. Come nella vita di ogni giorno».

Jean, non ci ha detto come andò a finire con suo padre...
«Uscii dalla Daytona volando, con papà che mi inseguiva (sorriso, ndr). Qualche tempo dopo iniziai a lavorare in officina con mio fratello. Resto un carrozziere dopotutto. Il mio primo mestiere è quello». 

 

 

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