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Italia, il generale Spalletti incolla i cocci del caporale Mancini

Tommaso Lorenzini
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L’avventura di Luciano Spalletti con la Nazionale è appena cominciata eppure ci pare un «comportamento corretto», come direbbe lui, ribaltare il corso degli eventi e anticipare, immaginare, partire in contropiede dalla fine, da quando sarà scritta la parola “addio” fra lui e l’azzurro. Perché più del debutto a singhiozzo (in due partite racimolati quattro punti che avrebbero dovuto esser sei, a rigor di peso specifico fra Italia, Macedonia del Nord e Ucraina) oggi stuzzica capire cosa ci sarà in mezzo, comprendere se, finalmente, per lo meno la Nazionale ci dirà chi è veramente l’uomo di Certaldo, successore di un Roberto Mancini andato via quasi sbattendo la porta per finire a predicare in un deserto d’Arabia profumato di petrodollari e poco altro.

Negli anni, l’ex tecnico del Napoli campione d’Italia ha contribuito ad affrescare il proprio ritratto di uomo non disposto a scendere ad alcun compromesso pur di andar dritto per la sua strada. Se dietro la curva poteva esserci un muro contro cui sbattere e farsi male, Luciano era disposto anche a farsi molto male. È successo un po’ ovunque. A Roma, con il caso di lesa maestà a Totti.

All’Inter, con l’affaire Icardi. Anche a Napoli, dove gli ultras hanno passato un’estate ad affiggere striscioni di insulti, dove gli hanno perfino rubato la Panda, e da dove è ripartito con una causa di beatificazione approvata a furor di popolo.

 

UNO, NESSUNO, CENTOMILA
Oggi, lo Spalletti che veste i panni del ct indossa un’ulteriore maschera, uno nessuno e centomila, conferma di saper cambiare modulo alla bisogna, come traslando nella vita personale ciò che predica in quella professionale, seppure senza mai darci l’indizio definitivo su dove finisca una e inizi l’altra, se il Luciano che ci parla è quello autentico oppure è ricorso ad un nuovo travestimento.

Eppure, la vittoria sull’Ucraina lo ha evidentemente rasserenato ed ha contribuito a fargli allentare le difese, lasciandolo quasi esposto, permettendoci con uno spiraglio di luce di scrutare dentro le sue riflessioni, spesso arabescate al limite dell’astratto: «Ora i calciatori vengono al campo e vogliono essere pronti, vogliono essere allenati, vogliono partecipare, non è vero che si va a rifare le stesse cose che si facevano venti anni fa, era un altro calcio», spiega Luciano, «ora vengono, si vogliono preparare, vogliono sentire delle cose in cui loro si riconoscono e credono. E poi, anche con delle sintesi, bisogna indicare dove si vuole andare, sono loro che lo richiedono, non noi. Il tempo va usato bene, perché è la cosa più importante che abbiamo. Su questo tempo abbiamo fatto discorsi e discorsi.

Il tempo è la cosa più importante di tutte: quando vuoi bene a qualcosa gli devi regalare il tuo tempo. Questo è il più bel regalo che puoi fare, a qualsiasi persona, a qualsiasi cosa. E noi bisogna regalare il nostro tempo, anche se sono solo dieci giorni, alla Nazionale, perché è la cosa più bella di tutte».

Una dichiarazione d’amore che non gli avevamo mai sentito fare. Spalletti ha rinunciato all’anno sabbatico che si era imposto dopo lo scudetto per vestire i panni di Cincinnato (anche lui di nome Lucio...), ha accettato la proposta di Gravina «perché quando chiama l’Italia non si può dire di no». Non lo ha fatto certamente per carità di patria, ma “aiutato” da un ingaggio che può toccare i 4,5 milioni di euro annui in caso di bonus raggiunti. Tuttavia, a Coverciano Spalletti non è arrivato da profittatore o ripiego, ha preso il comando senza essere autocrate ma generale. Il generale Spalletti, anche lui alle prese con un mondo al contrario, visto come sta messo oggi il calcio italiano.

La prima missione è, e sarà, rimettere i cocci e i giocatori al loro posto. Ha già ridimensionato i fischi di parte del Meazza verso Donnarumma come un accidente cui i professionisti devono saper far fronte in quanto tali, avvisando i naviganti; ha iniziato a ridisegnare l’attacco asfittico (per mancanza di interpreti, prima che di idee) intorno a quel centravanti atipico che è Raspadori, che conosce perfettamente e con il quale ha iniziato un percorso tecnico di crescita a Napoli che avrà l’ideale seguito in Nazionale; ha contribuito a risistemare la classifica del girone di qualificazione a Euro2024 per lo meno portandosi davanti a Ucraina e Macedonia del Nord; ha ridisegnato l’assetto gestionale del gruppo di lavoro azzurro, che negli ultimi mesi aveva preso stecche peggio di un coro di scolari ubriachi in gita.

 

FOTOGRAFIA IMPIETOSA
È diverso l’approccio, ci voleva, almeno per sparigliare e rompere col passato. Non è il metodo autoritario di Conte, non è quello inizialmente ottimistico ed entusiastico di Mancini poi scivolato nel “poche idee ma confuse”, una fase che il Mancio sembra non aver ancora superato, anzi: forse se l’è messa in valigia senza accorgersene e l’ha portata dentro lo spogliatoio dell’Arabia. 

La fotografia odierna di Spalletti e Mancini è impietosa: da una parte un generale aggiustatore, dall’altra un generale auto-degradatosi a caporal maggiore che al brivido del campo di battaglia campale ha preferito cimentarsi in scaramucce di periferia senza grossi pericoli e dal rendimento (economico) sicuro. Se il dribbling con cui Mancini ha salutato l’Italia ha messo d’accordo tutti sia sul piano tecnico (concludendo l’imbarazzo di una gestione involuta ed esaurita), sia di opportunità (contratto di quattro stagioni per 18 milioni all’anno), il canovaccio dell’esperienza saudita ricalca suo malgrado l’ultimo periodo azzurro: male. 

Chi spiega i pessimi flop contro Costa Rica e Sudcorea con il livello modesto dei calciatori arabi sbaglia: l’Arabia non ha calciatori top, ma i suoi competitor per il salto di qualità sono quelli, non certo l’Argentina (peraltro battuta un anno fa al Mondiale). Se dunque la sabbia ha già inceppato Mancini, Spalletti ha fra le mani un giocattolo da ricaricare, una macchinina azzurra da far ripartire per andare a prendersi finalmente la patente di arcitaliano. Lo aspettiamo agli esami.

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