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Beckenbauer, Boninsegna: "Quello che il Kaiser non ha mai digerito"

Leonardo Iannacci
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Un affascinante imperatore alsaziano, un sorridente protagonista di Ludwig, ma anche un duro generale uscito dalle pagine ingiallite di Niente di nuovo sul fronte Occidentale.

Tutto questo era Franz Beckenbuer, scomparso ieri all’età di 78 anni, simbolo di una Germania uscita dolorosamente dalla Seconda Guerra Mondiale mondiale e che trovò conforto, gioia e felicità nel fussball. Del quale il giovane Franz, nato tra le macerie di Monaco di Baviera nel 1945, è stato un interprete sublime e algido, prima centrocampista e poi libero, leader dentro e fuori dal campo nel Bayern, con il quale ha vinto tutto, comprese tre Coppe dei Campioni, e poi della nazionale tedesca che lo vide comandare in 103 partite, segnando 10 gol. Beckenbuer (vincitore anche di due Palloni d’oro) la portò in cima al mondo da giocatore nel 1974, quando beffò l’Olanda di Cruijff, e poi da ct nel 1990, quando la guidò a Italia ’90. Beckenbauer ha avuto tre mogli e cinque figli e un dopo-calcio pieno di dolori: nel 2015 questi perse l’amato Stephen, ucciso dal cancro a soli 46 anni.

 

 

 

Roberto Boninsegna, di Beckenbuer fiero rivale nella partita più iconica della storia, ovvero Italia-Germania Ovest 4-3 di Messico ’70, lo ricorda così per Libero.

Chi è stato Beckenbauer? 
«Un signore del calcio e un uomo elegante, in ogni situazione della vita».
Quando citiamo Italia-Germania 4-3, rivede quel magnifico giocatore in maglia bianca davanti a lei? 
«Come non potrei? Ricordo ancora oggi quella squadra che ci ha portato ai supplementari. Franz troneggiava fra Overath e Muller».
Era il leader di quella Germania ancora Ovest? 
«In assoluto, un centrocampista di personalità che, con l’età, ha ristretto il campo chiudendo da libero».
Di quel 4-3, cosa continua a sognare? 
«Proprio Beckenbauer con il braccio al collo lussato dopo uno scontro con Cera. Anche in quelle condizioni, dolorante e urlando parole in tedesco che non capivo, spronava i suoi all’assalto».
Era la prima volta che lo incrociava? 
«Sì, nel 1966, 21enne, era già un perno della Germania che perse la finale contro l’Inghilterra. Nel 1970 era il capo insieme a Uwe Seeler e, quattro anni dopo, ai mondiali 1974, il vero e indiscusso Kaiser».
A Città del Messico gli avete regalato la delusione più grande della sua vita... 
«Quella sconfitta non l’ha mai digerita. Ci siamo rivisti ai mondiali del 1990 dove era allenatore della Germania. Al ricordo, rideva poco».
Nel celeberrimo gol del 4-3 realizzato da Rivera, si vede Beckenbauer per una volta impotente. Mai più accaduto nella sua carriera, vero? 
«Non ricordo altre situazioni con Franz ko. Quella semifinale incredibile resta il nostro orgoglio. Anni dopo sono torneo a Città del Messico e ho visto, all’entrata dello stadio Azteca, una targa con la scritta: qui si è giocata la partita del secolo. Mi sono commosso».
Lei fornì l’assist del 4-3 a Rivera, beffando proprio Beckenbuer. 
«Mi involai sulla fascia e servii al centro Gianni che, con Franz sorpreso, segnò il gol che ci portò finale. Poi persa contro Pelé».
Che giocatore era? 
«Un regista dai piedi raffinati e unico nei lanci, tutti di esterno destro. Aveva una personalità immensa, lo si capiva quando si schierava al centro del campo. Ti guardava sorridente e mostrava la naturale leadership. Chiuse nel Cosmos accanto a Chinaglia e Pelè».
Cattivo in campo? 
«Ma Beckenbauer era correttissimo. Ti atterrava soltanto per interrompere l’azione».
E fuori dal campo?
«Un galantuomo d’altri tempi. Un signore raffinato».
Vi siete rivisti a Italia ’90. 
«Sì, era diventato, naturalmente, l’allenatore e la guida della sua nazionale. In finale aveva di fronte l’Argentina di Maradona. Vinse la Germania con un rigore dubbio ma lui, pur in estasi, cercava Diego forse per scusarsi».
È stato il più forte di quella generazione, escludendo Rivera, Mazzola e Riva dal giudizio?
«Assolutamente sì. Lui e Cruijff. Sapevo che stava male e sono addolorato perché con Beckenabuer se ne va un bel po’ della mia giovinezza. Anni belli, indimenticabili. Sono stato fortunato ad averli vissuti insieme a campioni come Franz». 

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