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L'Inter di Inzaghi figlia delle stelle

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Fabrizio Biasin
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A un certo punto della stagione 22/23, quella passata, Simone Inzaghi è un allenatore fottuto. Senza speranza. Silurato. Andato. Scaduto & scadente. Sbertucciato. Abbandonato. Bollitissimo. Inviso a media e critica. Parecchio solo. Il tipico dead man walking. È marzo, ma pure aprile, e qua e là si leggono cose come «Non gli basterebbe neppure arrivare in finale di Champions». E si dice con estrema leggerezza, ché tanto figurati se i nerazzurri hanno la forza di fare una roba del genere, con “quello lì” in panca poi. Un anno dopo parliamo di Scudetti & Stelle.

E mentre le indichiamo puntiamo il dito su Inzaghi Simone da Piacenza, uomo non più solo. Ora acclamato. Amato. Demone adoratissimo. E il suddetto dito non serve a indicare un pirla qualsiasi, ma l’artefice numero 1 del trionfo nerazzurro. E questa cosa - ci sia consentito - è quasi più clamorosa e inattesa di uno scudetto stravinto per manifesta superiorità. Signore e signori, l’Inter è campione d’Italia per la 20ª volta e certamente non per caso: può sfoggiare la miglior difesa della Serie A, il miglior attacco, la stramiglior differenza reti, difensori che si sono ritrovati a fare gli attaccanti e attaccanti che hanno recuperato palloni come difensori, portieri che il più delle volte sono stati a guardare, gioco verticalissimo e figlio di un calcio che in principio qualcuno ha scioccamente definito “antico” («ué, questi qui giocano in contropiede...»), non sapendo che il contropiede è una condizione dettata dalla forza del tuo avversario, mentre la verticalizzazione è una scelta consapevole e fatta per illudere: «Venite avanti, amici cari, non vi facciamo niente». Ma poi li stendi con quattro passaggi affettatissimi e letali.

 


Simone Inzaghi ha guidato un gruppo di giocatori di primissimo livello che, però, con lui riescono a rendere persino oltre il loro potenziale: Bastoni 23/24 verrà ricordato come un centrocampista; Darmian 23/24 verrà ricordato come un tuttofare; Calhanoglu 23/24 verrà ricordato come il regista che non era mai stato regista; Mkhitryan 23/24 verrà ricordato come un plutoniano; Lautaro Martinez 23/24 verrà ricordato come il capitano che da bomber e basta si è trasformato in bomber e guida; Federico Dimarco 23/24 verrà ricordato come una punta aggiunta, lui che «non può fare il terzino in una grande squadra, neppure come riserva». Si diceva così, un paio di anni fa, pensate. La forza di questo gruppo è certamente espressione di un lavoro che definire “certosino” non ti sbagli, ma anche di quella cosa che conta più della tecnica e degli schemi e si chiama “unità d’intenti”: tutti hanno fatto la loro parte, dal Toro argentino a Raffaele Di Gennaro, il portiere riserva della riserva. E tutti si sono tappati il naso per una panchina di troppo o una giornata storta. E questa cosa succede quando a monte c’è chi riesce a dare serenità. E pensiamo a Beppe Marotta. E pensiamo a Piero Ausilio. Due che meriterebbero la laurea Honoris Causa in economia pallonara. E alla fine di questo elenco di complimenti, sviolinate e palate di zucchero che a leggerli tutti ti viene il diabete, mi sia consentito di scrivere un’ultima cosa che c’entra nulla con i risultati di campo, ma vale tantissimo: Simone Inzaghi ha vinto senza urlare, senza dire «io so’ io e voi non siete un ca...», ha vinto con la buona educazione, una cosa che non porta punti ma, pensa te, a volte ti fa volare tra le stelle.

 

 

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