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Tomas Franchini, la morte dell'asso dell'alpinismo tradito dalle Ande

Claudia Osmetti
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È che la montagna è un po’ così. Sulle Dolomiti oppure sulle Ande, a Madonna di Campiglio o sul monte Cashan, in Perù. Madre-matrigna. Affascinante, totalizzante. E puoi essere rispettoso quanto vuoi, allenato quanto ti pare, preparato quanto ha potuto: ma gli incidenti succedono. Per caso, per destino, per sfiga. Perché sei in un momento di pausa, dopo una scalata impegnativa, lassù, a un passo dal cielo, a oltre 5.700 metri d’altezza, con un compagno di cordata cileno, dopo una notte di parete, sei appena uscito dalla tenda e la cornice di neve attorno a te cede. All’improvviso. Senza avvisaglie. E allora precipiti.

Nel vuoto. Lungo la parete. Per metri e metri. Se ne è andato così, Tomas Franchini. Se ne è andato facendo quello che gli piaceva di più, che sarà pure una banalità ma non è una frase di circostanza quando, a 35 anni come lui, hai passato una vita intera a guardare le cime e a dedicarti a quel sogno folle e indomabile. Alla montagna. La guida alpina, Franchini. L’alpinista, Franchini. L’esperto, il maestro di sci, lo scalatore conosciuto in tutto in tutto il mondo.

 

 

 

«Sei andato a fare compagnia al nostro amico Franz che ci diceva: “Siete fatti per arrampicare assieme e solo voi due”. Le cose facili non ci sono mai piaciute», Silvestro, il fratello di Tomas, è il primo che dà la notizia. Domenica, tre giorni fa. Quando ancora c’è una flebile speranza. Quella cordillera blanca andina, a Huaraz, tra l’altro, Tomas la conosce già: l’ha scalata, proprio con Silvestro, nel 2018.

Ma passano le ore, diventa buio, poi è giorno di nuovo e i soccorsi peruviani cercano, scandagliano. Lo trovano, Tomas, solo ieri. È morto. Non c’è più nulla, purtroppo, da fare. Silvestro non è in Sudamerica: «Non so se andrò, ora è il momento di stare vicino ai genitori. Piango e sento un vuoto. Hai vissuto poco, ma hai lasciato il segno. In montagna eri il migliore di tutti, con margine».

La pelle scottata dal sole, soprattutto sul viso. Quella tipica di chi passa tanto tempo in quota, in estate e in inverno, col freddo e con la bella stagione. I capelli ricci, ribelli, come lui. E gli occhi chiari, gentili, limpidi, il riflesso di quelle montagne che sono una ragione di vita e uno stile d’esistenza. Concreto. Pulito. Vero.

 

 

 

VITA DA ALPINISTA

Tomas Franchini è nato il 9 marzo del 1989. Sei anni fa è riuscito a spuntare i “los picos 6.500”, cioè tutte le cime più alte delle Ande. Quelle montagne, nel nord del Perù, le conosceva. Forse non bene come le sue Dolomiti del Brenta, però le conosceva. Così come conosceva l’Himalaya cinese, versante che lo ha persino visto protagonista dato che, nel 2017, ha aperto da solo una via sulla parete ovest del monte Edgar (6.618 metri d’altezza). Non c’era mai passato nessuno, prima.

Non era tipo da cercare i riflettori, Tomas. Quelle son robe da turista. Forse un po’ schivo, come tutta la gente di montagna. Non gli interessavano i tanto famosi Ottomila, preferiva le cosiddette “inviolate”: le vette mai scalate, mai raggiunte, i sentieri e le vie non ancora percorsi. Da primato. Nel vero e proprio senso della parola.

Ancora, in Cina, l’anno prima del Covid, cioè il 2019: un’altra, l’ennesima, solitaria. ‘Sta volta della parete est del monte Lamo Ste (6.070 metri). Per la scalata dell’Edgar, invece, è stato addirittura candidato al Piolet d’or, che è un premio prestigioso, è il più ambito, è praticamente l’oscar dell’alpinismo. Ha vinto, invece, questo ragazzo sorridente autore del libro Linee vergini tra le montagne del mondo (edito Idea Montagna), il Paolo Consiglio, che è un riconoscimento istituito dal Club alpino accademico, e l’ha portato a casa due volte. La prima (nel 2014) per la salita al Cerro Rincon, in Patagonia. La seconda (nel 2017) con una spedizione nel Kashmir indiano. Gli sono state fatali le Ande.

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