Geometria. Le righe del campo s’allargano e restringono, cercano la palla come un magnete, la nascondono, la buttano fuori, la spingono dentro. Cercare il «lungo riga», piazzarla là, all’incrocio tra il corridoio e la linea di fondo campo, quella striscia che in un baleno appare minuscola e subito dopo si trasforma in un infinito orizzonte conradiano. Raccontare il tennis è un misfatto letterario, giocarlo significa praticare l’arte del delitto perfetto. Jannik Sinner batte a Torino Carlos Alcaraz. Numero 1 o numero 2, adesso non ha nessuna importanza, le Finals sono catturate per la seconda volta dallo scacchista che muove il fulmine. Sinner guida il gioco anche quando non ha una buona prima palla di servizio, sale a bordo dell’alta velocità per non far pensare lo spagnolo che lo attende, pronto a fare il banderillero nell’arena. La partita è un romanzo, tutto sembra normale ma siamo nel campo dell’eccezionale, il primo set è un metronomo, un manuale di ritmo cardiaco e pressione. I punti sono il tracciato sismografico del cuore, dei polmoni, del cervello: dritto Alcaraz, dritto Alcaraz, dritto Sinner, ace Sinner, palla corta di Alcaraz, sotto rete Alcaraz. Carlos è un gattaccio dalle sette vite che s’avventa su ogni palla con artigli affilati dalle lame di Toledo. Siamo al primo set e dopo 50 minuti il numero 1 sembra pronto a papparsi la carota. Calma, non è finita, Sinner fa decollare una seconda palla a 187 chilometri orari, parità. Rasoia un dritto, vantaggio. Le righe di Alcaraz si sprecano, sono ovunque, sinuosa come un serpente sibila nell’aria la colonna sonora di un film di Alfred Hitchcock. Sinner annulla break e set point e si ritrova davanti per la prima volta nell’incontro. Alcaraz si mette a rispondere al servizio da terre remote, è in Polinesia, lontanissimo ad aspettare la bordata di Jannik. Sinner fa un punto da antologia, alza il sombrero, accende i retrorazzi, vola in alto e finisce con lo smash. Voilà, il destino è rovesciato, Jannik vince il primo set. Poesia.
GRAVITÀ Al principio del secondo set Sinner s’abbuia, fa due doppi falli consecutivi, non serve bene la prima palla, il tutto fa 2 a 0 per Alcaraz e la faccenda sembra mettersi male. Lo spagnolo fa la smorzata e gli resta appesa al braccio. Smorza Sinner e finisce sul lato giusto del campo. Sul tabellone c’è un 3-1, poi compare un 3-2, poi... Sinner stecca la risposta e come un petardo ne esce una palla pazza che sfida le leggi della gravità, Alcaraz l’agguanta, Sinner la chiude in un punto che è una sequenza di scomposizione delle leggi della fisica. Sul taccuino è inchiostrato un 3-3, break.
BINARI Arriva un altro passaggio non custodito sui binari, punto di Sinner dopo 24 colpi. Il set è ribaltato, 4-3. Alcaraz sbaglia e s’incazza, unisce pollice e indice, favella cose da “toreador” con il suo team in tribuna, qui c’è il picco freudiano della partita di Carlos, lo scatto nervoso, lo scricchiolio del talento splendente che ha davanti un campione che non si scompone mai. Perdo, sono Sinner; vinco, resto Sinner. Nastro di Alcaraz. Seconda palla di servizio di Sinner a 180 chilometri all’ora. Ace di Jannik, turno di gioco a zero. Mamma mia. Seconda di Sinner a 170 chilometri orari, Alcaraz sbaglia. Sinner fa detonare due volte il passante. Un rovescio a due mani sbalzato nel presente dai tempi di Björn Borg trafigge Alcaraz, lungo riga. Alcaraz si butta sotto rete e sbaglia. La vittoria è un mosaico, scomposizione e ricomposizione del quadro, la partita è questa sceneggiatura di colpi che Alberto Arbasino avrebbe trasformato in un cocktail ad alta gradazione. Paolo Bertolucci dice una cosa che la dice tutta: «La partita è un insieme di cose». Jannik le mette tutte insieme, è Cartesio sul campo da tennis: cogito, ergo Sinner.




