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Immigrati sfruttati nei campi? Ecco perché la colpa è tutta della sinistra

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Iuri Maria Prado
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Nella realtà capovolta di certo giornalismo solidarista le piantagioni schiaviste che rallegrano la scena del meridione d'Italia vanno messe sul conto del "capitalismo razzista" (testuale, sul Manifesto dell'altro giorno) che costringe i migranti nella degradazione dei ghetti e li sfrutta selvaggiamente pagandoli una miseria. 

 

Che sia il "capitalismo razzista" a governare l'andazzo effettivamente scandaloso dell'inclusione discriminatoria appare quanto meno improbabile, salvo credere che a Foggia, a Trani, a Caserta, a Reggio Calabria, a Trapani, vale a dire le zone dov' è più forte quella concentrazione di massa umana sfruttata e ghettizzata, si sia sviluppata senza che nessuno se ne accorgesse un'improbabile economia della sfrenatezza liberista.

 

Nel Paese con l'impresa posseduta al 45% dallo Stato, e con il residuo ampiamente sussidiato dall'inefficienza pubblica, e in generale nel panorama di un sistema alimentato pressoché esclusivamente dalla provvidenza assistenziale, è almeno lecito ipotizzare che non sia proprio nessun capitalismo a determinare quei maltrattamenti economici e sociali: e, piuttosto, che essi siano l'effetto di politiche fiscali e del lavoro avverse al mercato, alla concorrenza e allo sviluppo tecnologico, vale a dire le politiche che tengono lontano l'investimento capitalista e lasciano spazio al trionfo dello Stato etico e della retorica sindacale, la buona roba che perpetua le bellezze del latifondo negriero e delle baraccopoli.

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