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Immigrazione, sbarchi in calo: i numeri con cui Meloni smentisce la sinistra

Fausto Carioti
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Non è usuale che il capo del governo, al termine del consiglio dei ministri, faccia davanti alla sua squadra una «informativa sulle politiche migratorie». Se Giorgia Meloni ieri ha scelto di fare così è perché ha voluto parlare chiaro a tutti, convinta che su quel fronte le cose possano e debbano migliorare. I numeri sono quelli che il sito del Viminale pubblica con cadenza quotidiana, e da qualche tempo indicano un costante miglioramento. Dall’inizio dell’anno a ieri sono sbarcati in Italia 4.028 immigrati: assai meno che nello stesso periodo del 2023, quando erano stati 7.587. Il loro numero è in calo anche rispetto agli stessi 46 giorni del 2022, quando gli sbarcati erano stati 4.165. «Piccoli segnali di speranza», li ha chiamati la premier parlando ai suoi. Ha evidenziato, racconta chi era lì, il «consistente calo degli sbarchi negli ultimi quattro mesi», e fatto presente che, comparando i dati di quest’anno rispetto all’analogo periodo del 2023, il calo degli arrivi è pari al 41%.

«Tuttavia», ha ammesso, «è una rincorsa continua». Bisogna cambiare passo, quindi. Non la strategia di fondo, che considera giusta. La filosofia resta infatti quella del Piano Mattei, avviato prima con la Conferenza internazionale sullo sviluppo e le migrazioni e quindi con la conferenza Italia-Africa. Tanto che la premier, a quanto si è appreso, ha insistito ancora sull’importanza del «nuovo modello di cooperazione» con le nazioni africane, «non predatorio, bensì collaborativo», e ha rivendicato che «tra i tanti diritti da tutelare c’è anche il diritto a non emigrare». È un’espressione, questa, che la presidente del Consiglio ha preso da Giovanni Paolo II. La usa spesso e, ripetendola ieri, non ha fatto riferimenti all’attuale linea del Vaticano e della Conferenza episcopale italiana, anche se, mentre lei parlava, le agenzie diffondevano il durissimo giudizio di monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Commissione per le migrazioni, sull’accordo Albania-Italia, definito dal prelato «673 milioni di euro buttati in mare».

 

 

Pure lontano dai microfoni, nel (relativo) segreto di Palazzo Chigi, la presidente del Consiglio ha voluto evitare ogni contrasto con la Chiesa. Anche perché, a interessarla, non è quello che combinano vescovi e i cardinali, ma ciò che fanno i suoi ministri. Occorre cooperare, e stringere accordi contro i trafficanti, con le nazioni della vasta regione chiamata «Mediterraneo allargato» e dell’Africa sub-sahariana, da cui gli immigrati partono. Sigillare una rotta, infatti, risolve il problema solo temporaneamente, perché subito spunta un’altra direttrice.

LA TRIPOLITANIA
«Se cinque mesi fa la nostra prima preoccupazione erano gli arrivi dalla Tunisia», ha spiegato la premier con un esempio, «oggi lo è divenuta la costa della Tripolitania, che sta facendo registrare un incremento di partenze». Anche il Sudan è elencato tra le «nuove fonti di pressione», in seguito al conflitto iniziato nell’aprile 2023. I profughi sudanesi, infatti, un tempo si fermavano in Egitto, ma adesso giungono fino in Libia e da lì vengono in Italia. A facilitare il lavoro di chi organizza i loro viaggi ha provveduto la giunta golpista che ha preso il potere in Niger e a novembre ha cancellato la legge che contrastava il traffico illecito di migranti, facendo così aumentare le partenze da quell’area.

 

 

Il salto di qualità che Meloni chiede ora a tutti i ministri è l’estensione ai Paesi dell’Africa settentrionale dell’approccio, fatto di attenzione, vicinanza politica e investimento economico sul territorio, già usato in provincia di Napoli. «Quello che immagino, operativamente e mediaticamente, è un modello “Caivano” da proporre per il nord del continente africano, in modo particolare per la Tunisia e la Libia, ben consapevoli delle differenze sussistenti tra Tripolitania e Cirenaica».

Ambedue le nazioni africane dovranno sentire lo «spirito di solidarietà» del governo italiano, che significa innanzitutto impostare tavoli ministeriali che rafforzino la collaborazione bilaterale con tutti quei Paesi. E quindi seguire passo passo i cantieri e gli altri esempi di cooperazione. «Andiamo tutti in Libia e Tunisia, sviluppiamo progetti, controlliamone l’esecuzione, coordinando - come per Caivano - le presenze, in modo che siano cadenzate e diano il senso della continuità»: è questa la missione.

I COMPITI PER I MINISTRI
A Caivano, per mesi, i ministri si sono alternati con frequenza quasi settimanale. I risultati si stanno vedendo, nell’area del Parco Verde la presenza dello Stato italiano ha il colore delle forze dell’ordine. Fare qualcosa di simile in Libia e Tunisia sarà molto più difficile, ma chi ieri era presente mentre Meloni parlava l’ha vista molto determinata. Al punto che ha suggerito a quasi tutti i ministri i “compiti” da fare. Il titolare della Cultura, Gennaro Sangiuliano, potrebbe ad esempio occuparsi di tutelare una parte dell’importante patrimonio archeologico della Libia. Francesco Lollobrigida, responsabile dell’Agricoltura, ha solo l’imbarazzo della scelta tra i progetti agroalimentari che l’Italia può seguire in nord Africa, alcuni già avviati. Orazio Schillaci potrà impegnarsi nella creazione di strutture sanitarie e nella formazione del personale, e il suo collega Andrea Abodi di partnership e impianti sportivi per i giovani, mentre Anna Maria Bernini potrà proporre ai Paesi africani programmi di studio di livello universitario. Meloni è convinta che questo possa essere un punto di svolta nella storia del governo e in quella dell’immigrazione verso l’Italia. Di sicuro, per i ministri ci sarà molto lavoro in più: la premier ha chiesto di essere informata di ogni sviluppo e di ogni intoppo. Li ha lasciati con un messaggio chiaro: «Se ci sono problemi voglio saperlo da voi, non da Kais Saied o da altri».

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