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Matteo Orfini, imbarazzo Pd: Renzi, Carola Rackete e patrimoniale, il comunista sbaglia-tutto che imbarazza il Pd

Essere Matteo Orfini è difficilissimo. Bisogna avere una naturale predisposizione a sbagliare, sul più bello, tempi e modi e luoghi della propria esistenza politica. Lui, modestamente, Orfini lo nacque quarantasei anni fa ed essere se stesso gli riesce benissimo: l'ultima prova ce l'ha fornita da poco, presentando un emendamento alla legge di Bilancio (assieme al gemello acquisito Nicola Fratoianni) per riproporre la sciaguratissima tassa patrimoniale che seppellirebbe nella definitiva impopolarità il governo di Giuseppe Conte e la sua ineffabile maggioranza giallorossa. Infatti quell'emendamento, i suoi colleghi, gliel'hanno prima nascosto e poi platealmente bocciato con raffiche di scomuniche corredate da finte sorprese. Cose tipo: ma chi lo conosce quello Ah sì, Orfini? Il nome mi ricorda qualcosa Sta di fatto che il non più giovane turco, anzi il mai stato giovane Orfini, già presidente del Partito democratico, non è certo un passante, sebbene da tempo venga trattato come tale. Lui lo sa bene e tira avanti, solitario e donchisciottesco, come se niente fosse. Come se la sua carriera, ormai fossilizzata dalla fine dell'èra geologica renziana, non fosse costellata da un'evidente asimmetria tra la realtà e una disperante ostinazione nel cercare d'imprimervi un'impronta, un graffio politico, uno squillo ideale, un segno di sopravvivenza purchessia. La verità è che Orfini è solo e orgogliosamente rabbuiato dalla sopraggiunta irrilevanza in cui giace, dopo essersi intestato un'onesta sequela di fallimenti. Le sue ultime immagini raggiungibili, gli scatti che ne hanno immortalato il decorso più o meno recente, lo ritraggono come un peluche intristito e avvinghiato a Gennaro Migliore mentre battagliava - onorevolmente sconfitto - contro l'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini (estate 2019) per aprire i porti siciliani alle navi delle Ong cariche di migranti. Ma c'è un altro dagherrotipo, se possibile ancora più eloquente, che riassume le ragioni della sventura principale di Orfini: quella famosa partita alla playstation accanto a Matteo Renzi, alla vigilia delle regionali del 2015, un incomprensibile sfoggio d'infantilismo al governo servito al pubblico antipatizzante nel momento di massima popolarità del bullo di Rignano annidato a Palazzo Chigi. La circostanza fu percepita come la più alta dimostrazione che Orfini, nato comunista nella sezione Mazzini di Roma, cresciuto a pane e sinistra dalemiana, era ormai cambiato per sempre, non sarebbe mai più tornato in sé malgrado ogni sforzo.

Spirito guida - Perché Orfini ha cominciato, appunto sbagliando bene: sin da fanciullo, e con una certa grazia borghese, da studente predestinato al successo sull'annoso albero post sovietico seminato nella scuola delle Frattocchie, con studi classici al liceo Mamiani e una quasi laurea in Archeologia. Insomma il lignaggio perfetto per diventare un Goffredo Bettini tascabile, e lui questo sembrava volere. Al punto da trovare in Massimo D'Alema più di un maestro, uno spirito guida, il baffuto animale totemico che di lui avrebbe fatto un assistente perfetto: le stesse parole d'ordine stentoree, le medesime movenze bizantine con monotone vocali allungate e quei "diciamo" a punteggiare il disciplinato megafonaggio quotidiano della dottrina di partito, il centralismo democratico di antica obbedienza propalato dal Bottegone. È così che Orfini è poi diventato il promettente ragazzo di cultura che declamava l'ulivismo mondiale reincarnatosi in fattezze emiliane con Pier Luigi Bersani, il segretario per il quale ha inventato appunto la corrente dei Giovani Turchi, l'altro suo modello destinato a un precoce tramonto atrabiliare. E veniamo al momento topico in cui Orfini ha imboccato la via senza ritorno: la clamorosa conversione al renzismo intervenuta nel 2014, quando il Giglio magico s' è impadronito della sinistra e dell'Italia e, per non dar l'idea di voler strafare, ha innalzato l'ex cucciolo dalemiano alla presidenza del partito. Doveva essere un ruolo di equilibrio, il suo; il segnacolo di un compromesso, ma come molte altre prese in ostaggio s' è trasformato in una storia d'amore. Matteo&Matteo, un cuore solo e due destini parallelamente inceneriti dal referendum costituzionale del dicembre 2016, quando si trattò di fare asso pigliatutto oppure finire espettorati come un malanno stagionale. Entrambi hanno resistito, a modo loro, Renzi s' è rifatto una semivita perché è più furbo e fantasioso di tutti i suoi numerosissimi nemici. Ma in fondo anche Orfini è ancora lì, tollerato nelle sue eccentricità dai nuovi padroncini zingarettiani e ignorato con una sgrullata di spalle soprattutto quando prova a scavalcarli a sinistra, lui che la sinistra l'ha portata in dote al bambino di Firenze che faceva indigestione di comunisti.

Ritorno alle origini - E così, dagli assalti pirateschi tendenza Carola Rackete alla nostalgia per la patrimoniale come prosecuzione dell'esproprio proletario con mezzi aggiornati, passando per il fallimentare tentativo di regalare residenza e utenze agli occupanti abusivi degli immobili altrui (perché «la casa è un diritto costituzionale»), Orfini ha costruito l'ultimo tratto della propria vicenda politica all'insegna del ritorno alle origini, quasi una reimmersione nel liquido amniotico e rigenerante dell'antico Pci, con una spruzzatina di polvere gruppettara in stile anni Settanta. Ogni battaglia una sconfitta, ogni sconfitta un nuovo mulino a vento da assaltare. Ci vuole anche coraggio, per essere Matteo Orfini, bisogna riconoscerlo.

di Alessandro Giuli

Nel video di Agenzia Vista / Alexander Jakhnagiev, Orfini e la patrimoniale

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