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I terroristi islamici? Sono nipoti di Trotsky

Andrea Tempestini
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Nonostante le apparenze, quello che per comodità chiamiamo terrorismo islamico è un frutto al veleno della vecchia Europa, maturato a Parigi sul crinale degli anni Settanta. Qui, nel clima di quella stagione inquieta, l'esule Khomeyni, con una complessa elaborazione culturale, trapiantò il trotskismo di cui allora si favoleggiava nel tronco dell'Islam, sostituendo al proletariato l'umma, cioè la comunità dei fedeli, e trasformando in rivoluzione continua la rivolta in chiave identitaria dei movimenti religiosi che avversavano lo scià. Era, il loro, un rifiuto radicale della modernizzazione in corso nel Paese, dove un regime autoritario stava introducendo importanti libertà economiche e personali, che coinvolgevano per esempio ruolo e diritti della donna. Quando l'ayatollah fece ritorno a Teheran, la sinistra europea applaudì, scambiando il metodo, che le era familiare, per i contenuti, negazione di ogni progressismo. In Iran tuttavia non fu cancellata del tutto la distinzione tra Stato e chiesa-partito (speculare al partito-chiesa del socialismo reale), che pure assunse un ruolo debordante. Fino allora, nel vicino Oriente e in Africa settentrionale, gli irredentismi che si erano opposti al colonialismo non avevano avuto connotazioni confessionali. Con qualche eccezione: la Sanûsiyya, che condusse l'insorgenza contro gl'italiani in Libia, era una confraternita religiosa nata a metà Ottocento tra le tribù beduine della Cirenaica. In Palestina, tra gli anni Trenta e Quaranta, è il Gran muftì di Gerusalemme a guidare l'intifada contro gl'inglesi. Gli altri movimenti nazionalisti erano invece laici e concepiti su modelli europei, come l'Fln algerino e il partito Baath in Siria e Iraq, pur tra loro assai diversi. In Egitto Nasser, arrivato al potere nel 1954, scoglie d'autorità la Fratellanza musulmana e ne incarcera i maggiori dirigenti; oggi al-Sisi ne segue l'esempio, se possibile con maggiore durezza. Benché in termini di ferocia abbia ancora da imparare, l'Isis che in questi giorni riempie le cronache con le proprie nefaste imprese si comporta non troppo diversamente dai Khmer rossi di Pol Pot, che si era anch'egli formato a Parigi, in stretto contatto con il Partito comunista francese. Nel nuovo califfato, il trotskismo di matrice khomeynista ha raggiunto la sua perfetta declinazione: i non musulmani sono considerati dai guerriglieri alla stregua del nemico di classe; l'internazionalismo, nato marxista, si è fatto islamico: i militanti hanno provenienze disparate in termini di nazione ed etnia; qualcuno arriva dall'Europa. Come accade ai rivoluzionari, dai giacobini in poi, anch'essi conoscono un solo linguaggio: il terrore. Lo Stato, per loro, non esiste, se non come estensione dell'autorità religiosa. Vogliono costruire l'uomo nuovo e per questo non hanno rispetto alcuno per la realtà umana. Combattono per costruire la società perfetta, che si realizza non nella transizione al comunismo, ma nella transizione all'islamismo. La loro utopia non è però rivolta al futuro, ma al passato: non s'accorgono che la tradizione, se ha bisogno dei kalashnikov per esser restaurata, non gode certo di buona salute. È quindi facile comprendere perché i grillini, e non loro soltanto, guardino con favore all'Isis: è questione di matrice culturale. In gran parte, essi provengono dai centri sociali e dall'antagonismo, che ancora non sono riusciti a guarire dal più longevo morbo del Novecento: l'ideologia. di Renato Besana

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