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La trattativa Stato-mafiaè nero su bianco da un pezzo

Nel '93 era a capo della Dia

Non servivano le intercettazioni del Quirinale: le prove sono nei dossier che risalgono agli anno novanta

Andrea Tempestini
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di Pierangelo Maurizio No, non c'era bisogno delle intercettazioni effettuate di rimbalzo dalla procura di Palermo anche sulle utenze del Quirinale, e del Presidente Napolitano, per avere certezze sulla trattativa tra Stato e mafia ai tempi delle bombe targate Cosa nostra nell'estate del '93. E questa volta la trattativa va scritta senza virgolette e senza l'aggettivo presunta. Perché apertamente si parla di trattativa, poco dopo le stragi di Milano e di Roma avvenute nella notte tra il 27 e il 28 luglio '93. Ne parla in un'ampia nota il 10 agosto '93 l'allora direttore della Dia, la Direzione investigativa antimafia, Gianni De Gennaro, futuro capo della polizia e attuale sottosegretario con delega ai servizi segreti nel governo Monti. La relazione di De Gennaro a leggerla oggi colpisce per l'acutezza e l'ampiezza dell'analisi, per la ricchezza di informazioni ottenute anche come «informazioni fiduciarie» (da informatori? pentiti? infiltrati?). Colpisce anche per la differenza con gli altri rapporti di quell'agosto. Nell'estate in cui lo Stato era in guerra e sembrava in ginocchio i resoconti degli altri organi investigativi – quello del Cesis, ad esempio, l'organo di coordinamento dei servizi – oltre a cercare di mettere insieme le tessere del ricatto mettono tutti, al massimo, in stretta relazione il 41 bis, il carcere duro, e le cinque bombe esplose dal maggio al luglio '93 (tre a Roma, una Firenze e una a Milano). La Dia si spinge decisamente più in là. Il documento lascia un po' in secondo piano il 41 bis e traccia uno scenario di continuità tra le stragi del '92 (stragi di Capaci e di Via D'Amelio), risposta alle condanne del maxiprocesso, e le bombe del '93 (ma questa continuità è tutta da dimostrare). Dice che se la mano è di Cosa nostra si intravede l'intervento di «altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti», tanto più che chi ha pianificato quella campagna di attentati «dimostra una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione» oltre che «la capacità di sondare gli ambienti politici» e i segnali che arrivano da lì. Tira in ballo la massoneria. Annota che, dall'omicidio Lima, Cosa nostra ha rotto con i referenti politici tradizionali e «ha iniziato, forse, a ricercare nuovi interlocutori…». Ecco, questo «forse» è la matrice di tutte le inchieste che dal '96, prendendo lo spunto dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca, avvia la Procura di Palermo guardando verso Berlusconi, Forza Italia e il centrodestra. Ma c'è da chiedersi, dopo vent'anni di silenzi e/o bugie, se la direzione giusta in cui cercare sia per caso quella opposta. Ma quello che qui interessa è la parola «trattativa», spuntata nell'agosto '93. Ecco il passo della nota della Dia: dalle pesanti restrizioni della vita carceraria «è derivata per i capi l'esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l'esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa». Non è un'ipotesi, il «dialogo» tra Stato e boss è in atto. L'«appunto De Gennaro» viene inviato al ministro dell'Interno Nicola Mancino (anzi, un'annotazione a mano sulla prima pagina precisa «consegnato a mano al signor Ministro 11/9/1993»). È difficile capire come Mancino possa ripetere da anni di non aver mai sentito parlare di trattativa. Ma l'appunto da Mancino viene trasmesso anche al presidente della Commissione antimafia, Luciano Violante, su sua richiesta, il 14 settembre '93.  De Gennaro il 10 agosto ha scritto anche testualmente: «Partendo da tali premesse è chiaro che l'eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l'applicazione dell'Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”…». Quando, di lì a tre mesi, il ministro Conso «in sofferta solitudine» lasciò cadere il carcere duro per centinaia di mafiosi, i destinatari di questo appunto che cosa avranno pensato? E che cosa hanno fatto per ostacolare e denunciare il cedimento dello Stato (che evidentemente era già nell'aria ad agosto)? Ma Violante, sempre il 14 settembre '93, chiede (chi lo informa?) e ottiene anche la nota sugli attentati predisposta l'8 settembre dallo Sco, il Servizio centrale operativo, sempre della polizia. Lo Sco addirittura scrive di una «trattativa» (questa volta vengono messe le virgolette), «per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali». Anche in questo caso si fa riferimento a fonti confidenziali. A questo punto il presidente dell'Antimafia, Violante, è colui, per tabulas, che ha sotto gli occhi la situazione completa. Perché nel dicembre del '93, sempre su sua richiesta, riceve dal ministro Conso altra posta. È «l'appunto» con cui Adalberto Capriotti, neo direttore del Dap (Dipartimento amministrazione carceraria), spiega per filo e per segno come vengono lasciati decadere centinaia di 41 bis. Tre le ipotesi. O Violante chiedeva note che poi non leggeva. Oppure chiedeva note che poi cancellava. Oppure chiedeva note che poi chiudeva in un cassetto in attesa che il popolo fosse pronto per la lettura.

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