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Quei 50 mujaeddin in Italia, così la Jihad arruola

Lucia Esposito
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Una cinquantina pronti a partire per andare a combattere la guerra santa e fiancheggiatori che si contano nell'ordine delle centinaia. Se statisticamente risultano poco significativi, i numeri della galassia jihadista italiana rappresentano un allarme. Anche perché si tratta di numeri destinati a crescere nel breve periodo. Se le proporzioni del fenomeno dei terroristi cresciuti in casa in Italia (ma lo stesso discorso vale anche per la Spagna) non sono paragonabili a quanto si vede in Paesi come Regno Unito, Francia e Germania è sostanzialmente per una questione demografica. L'immigrazione musulmana su larga scala è infatti arrivata negli Stati del sud Europa con una trentina d'anni di ritardo rispetto a quelli del centro-Nord: quasi una generazione di ritardo. Questo implica che nei Paesi mitteleuropei la seconda generazione di immigrati ha raggiunto l'età adulta con sensibile anticipo rispetto alla controparte meridionale. Che ci sta arrivando adesso. La tempistica torna. Gli elementi radicali della prima generazione sono stati attivi a partire dai tardi Ottanta e per tutti i Novanta nei centri dedicati (moschea di viale Jenner a Milano e similari). A partire dagli anni Zero, per il combinato disposto della stretta operata dalle autorità e della ricollocazione di molti estremisti in Paesi più accoglienti, l'Italia - caso quasi unico in Europa - ha registrato un sensibile calo dell'atività jihadistica. Con gli anni Dieci, cioè il periodo in cui la seconda generazione di immigrati è uscita dall'adolescenza, le cose sono però cambiate. Il campanello d'allarme suona nel 2009, quando Mohammed Game (nato in Libia ma cresciuto e radicalizzatosi a Milano) tenta senza successo di farsi esplodere in una caserma del capoluogo lombardo. Poco dopo finirà alla ribalta Mohamed Jarmoune di Niardo, provincia di Brescia: lavoratore, integrato, famiglia rispettata. E una passione per il jihad che, nel maggio del 2013, gli varrà una condanna a cinque anni e quattro mesi. Storia simile a quella di Anas el Abboubi, elettricista di Vobarno (sempre nel Bresciano) che si era messo in testa di importare la sharia in Italia. Arrestato e successivamente rilasciato, si trova da un annetto in Siria dove è entrato a fare parte dell'Isis. Più noto il caso di Giuliano Ibrahim Delnevo, genovese convertitosi da giovane alla religione islamica e radicalizzatosi al punto da andare a combattere e morire in Siria. Il fenomeno è finito all'attenzione dell'intelligence, il cui ultimo rapporto al Parlamento, oltre a fornire le cifre di cui sopra, mette in allerta circa «la presenza di parecchi individui di seconda generazione di immigrati o italiani convertiti che sono caratterizzati da una visione incompromissoria dell'islam e da atteggiamenti di intolleranza nei confronti dei costumi occidentali». Caratteristiche salienti di questi individui - si legge in un informato documento curato per il think tank spagnolo Elcano dal professor Lorenzo Vidino dell'Eth di Zurigo - sono di non frequentare le moschee tradizionali (troppo morbide) e di avere un rapporto conflittuale con gli estremisti di prima generazione. Questo li porta ad operare prevalentemente sul Web, dove è più facile entrare in contatto con i gruppi radicali degli altri Paesi europei, con i cui componenti le affinità anagrafiche ed ideologiche sono maggiori.  Integrati, economicamente non marginali, spesso con un passaporto comunitario in tasca. Eppure incapaci di vedere se stessi in un'identità europea al punto da preferire darsi un senso con l'islam radicale. Proprio come i jihadisti home grown che dal Regno Unito e dal resto d'Europa vanno ad ingrossare le fila dell'Isis. E adesso sono diventati grandi anche i nostri.  

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