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Salvatore Buzzi, il ritratto del boss di Mafia Capitale

Lucia Esposito
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«Di quale delitto si sarà macchiato Salvatore Buzzi, il giovanotto bruno e barbuto che sta parlando, dal podio, della necessità di costituire, “rispettando la normativa vigente”, una cooperativa agricola?». Se lo chiedeva Miriam Mafai in un accorato articolo comparso su Repubblica  il 30 giugno 1984. La giornalista e militante progressista, che fu compagna del comunista Giancarlo Pajetta, era presente a un convegno organizzato il giorno precedente dentro al carcere di Rebibbia, a Roma. Già, il 29 giugno 1984. Una data fatidica, a cui Salvatore Buzzi deciderà di intestare la sua cooperativa, in memoria di quella giornata che gli avrebbe spalancato, nemmeno troppo metaforicamente, le porte del carcere. Portandolo, anni dopo, a divenire la figura chiave dell'inchiesta su Mafia capitale. Una favola particolare, la sua: iniziata da una galera e finita dentro un'altra. Una storia che si consuma tutta nell'universo politico e culturale della sinistra bene, che per anni ha cullato Buzzi trattandolo come un prodigio. Una vicenda di intellettuali che vogliono credere ciecamente alla redenzione, alla rieducazione di quest'uomo che incantava con i suoi discorsi e aveva addosso l'odore eccitante della vita vissuta, della caduta e della risalita. Ma torniamo alla domanda della Mafai. Di quale delitto si era macchiato Salvatore Buzzi? Ancora una volta, come voluto dal destino, torna il tepore di giugno. Il 26 giugno del 1980 Buzzi ha 25 anni. Lavora in banca. Ma quell'impiego gli sta stretto. Salvatore vuole qualcosa di più, vuole fare la bella vita. È fidanzato con una ragazza brasiliana (una prostituta, hanno scritto alcuni giornali). Vivono assieme in un appartamentino dopo che Buzzi se n'è andato da casa dei genitori alla Magliana. Girano su una macchina da dodici milioni. Per mantenere questo tenore, c'è bisogno di arrotondare. E allora Buzzi che fa? Si inventa una bella truffa ai danni del suo istituto di credito. Ruba assegni, poi li passa a un complice che ha il compito di incassarli. Il problema è che il compare si rivela inaffidabile. Ha 20 anni e si chiama Giovanni Gargano. Forse per paura o forse per avidità, costui minaccia di denunciare Salvatore ai superiori. E Buzzi non ci vede più. Quel giorno, il 26 giugno, i due complici si fronteggiano. Alla fine, a terra rimarrà Gargano, ammazzato con trentaquattro coltellate. Buzzi sostiene di averlo disarmato per difendersi, e poi di aver perso la testa. Il numero dei colpi conferma la brutalità dall'assassinio. Ma forse non si tratta soltanto di un raptus, di un accesso di collera. Perché la storia non finisce lì. Buzzi cerca di far sparire il cadavere dandogli fuoco, inventa storie per sviare le indagini. Ma viene scoperto. Nel processo di appello, la condanna sarà a 24 anni. Su questa storiaccia di crimine comune e squallido si costruiscono le fondamenta della bella favola del compagno Salvatore. Che in carcere sembra sbocciare, nonostante tutte le brutture che lo circondano, nonostante le sbarre. È il sogno di chiunque abbia dentro di sé un po' di umana compassione: lo sbandato che si rimette sulla retta via. L'uomo che con le sue sole forze emerge dalle tenebre. E lo fa preoccupandosi anche degli altri detenuti, difendendone i diritti come ogni progressista dovrebbe fare. Nel 1983 Buzzi si laurea. 110 e lode con tesi su Vilfredo Pareto. Nel frattempo, il suo impegno cresce. Conduce una battaglia per il sesso in carcere. Si butta a testa bassa nell'organizzazione di uno spettacolo teatrale. Poi l'idea vincente, che lo stesso Buzzi sintetizzò in un'intervista a Una Città: «Ci dicemmo: “Tentiamo di fare un convegno all'interno del carcere”. E ai miei tempi non è che si facessero convegni, era un'idea rivoluzionaria». Il direttore del carcere, illuminato, «ci consentì di avere una serie di incontri preparatori con deputati, magistrati e alla fine il ministro Martinazzoli ci dette il permesso per il convegno». Il retroterra è quello: la Dc e i comunisti. Al convegno in carcere, come ha scritto il Corriere, partecipano «Giuliano Vassalli, presidente della Commissione giustizia del Senato, il sindaco Ugo Vetere (del Pci, ndr), il presidente della Commissione per la riforma istituzionale Aldo Bozzi». Poi Giovanni Galloni, direttore del Popolo, il fondatore della Caritas don Luigi Di Liegro, la moglie di Pietro Ingrao, Laura Lombardo Radice. Lo stesso Martinazzoli. È un successo. Si può dire che la grazia, concessa nel 1994 da Oscar Luigi Scalfaro (un altro che diverrà beniamino della sinistra), se la sia guadagnata quel giorno. All'articolo commosso della Mafai fece eco, tempo dopo, un pezzo altrettanto enfatico di Ingrao sull'Unità. Lui e la moglie terranno a battesimo la coop «29 giugno». Che negli anni a venire rimarrà nelle grazie delle giunte di sinistra e dei giornali di area, in particolare Repubblica, che darà voce a Buzzi in numerosi articoli. Nel 2010, per dire, riportò alcune sue opinioni piuttosto negative su Gianni Alemanno, reo di danneggiare le coop sociali. Salvatore, dal canto suo, ricambierà l'attenzione, finanziando il finanziabile (intellighenzia in primis) coccolando i coccolabili. Affascinando con la sua favola di truffatore e omicida redento. Di visionario. Così lungimirante da organizzare convegni in carcere e da spiegare anni dopo, al telefono, che trafficando con gli immigrati si fanno più soldi che spacciando droga. Francesco Borgonovo

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