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Gianfranco Fini si è già condannato da solo

Alessandra Menzani
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Ci fu un tempo in cui Gianfranco Fini, il nostro livido Giscard d' Estaing della bassa padana, godeva d' una fascinazione irresistibile. La sua attrattiva era trasversale. Oltre alla destra antiberlusconiana e agl' imprenditori illuminati c' era - per dire - perfino Lidia Ravera, sinistra militante, che, quando Gianfry s' ergeva a presidente della Camera, provava incanto; e lo ritraeva come una bellezza di secondo sguardo. Di quelle che lì per lì non ti dicono nulla, ma, ad osservarlo meglio, be', «una bottarella gliela darei», scriveva «nel disordine estetico del Parlamento, tra pancette sedentarie e bocche sguaiate, la sua compostezza pensosa è elegante. Se fosse una donna Gianfranco Fini sarebbe una casalinga ispirata. Di quelle che, quando c' è da fare un po' di pulizia lo capiscono prima degli altri. E buttano tutto per aria». Che, infatti, cara Livia, poi s' è visto. «Buttare per aria» è un' immagine pertinente. Il fatto che oggi la Procura di Roma per Fini e i suoi familiari invochi il processo per il reato di riciclaggio, peculato, evasione fiscale ed altre amenità in merito alla leggendaria casa di Montecarlo, be', rende l' idea di quanto velocemente una luminosa carriera politica possa essere risucchiata nel buco nero d' una reputazione distrutta. Non occorre, oggi, infierire sulla cupa sorte di Fini. Il quale - non senza ragione - continua a darsi pubblicamente del «coglione» mentre qualcuno l' ha visto vagolare, di notte, con barba lunga e secchio della spazzatura in mano, inseguendo con lo sguardo disperato d' un personaggio di Emile Zola la grandezza del passato. Ci fu un tempo in cui Fini, come un Mariotto Segni qualsiasi, aveva l' Italia in mano. Bastava aspettare, Gianfry. Senza lasciarsi scivolare nel gorgo del proprio ego. Socialmente di classe media (figlio di un benzinaio bolognese socialdemocratico ma ex XMas), politicamente il ragazzo era nato con la camicia. Camicia nera, intendo. Non capita tutti i giorni di accendersi di passione ideologica soltanto per un film pro Vietnam di John Wayne, Berretti verdi. O di esser benedetti, tra mille militanti mugugnanti, dal capo assoluto dell' Msi Giorgio Almirante che volle eleggere il lungagnone silenzioso e fresco di laurea in pedagogia suo delfino, dal letto di morte. Non capita spesso neppure d' esser sdoganati da Tangentopoli e dal politico nascente Berlusconi; il quale trascinò Fini prima alle soglie del Campidoglio (si dice che Gianfry abbia frenato per evitare di smazzarsi sullo scranno di sindaco di Roma) e poi gli schiuse le porte del Parlamento e delle più alte cariche istituzionali, ministro degli Esteri, vicepremier, Presidente della Camera molto dotato nell' eloquio e nella playstation, meno nella fattura legislativa. Non capita sovente, insomma, di essere predestinato alla guida di una destra moderata, più che per meriti tuoi perché in giro non abbondano giganti del pensiero. Ma la biografia di Gianfry è già stata abbondantemente arata. La svolta di Fiuggi e la nascita di Alleanza Nazionale e lo scazzo con i fascisti duri e puri (che, comunque, sono rimasti con lui finché c' era convenienza). Lo "scandalo della caffettiera" con gli amici di sempre Matteoli, La Russa e Gasparri seriamente preoccupati per la cattiva influenza di Stefania Prestigiacomo che aveva spinto Gianfry verso ineffabili aperture ai gay, al fine vita e alle droghe. Tutto condivisibile. Per un pannelliano, o un liberal dell' Alabama, meno per il leader dei postfascisti. Da lì, la rottura con Berlusconi col famoso «Che fai mi cacci?»; e la fondazione di Futuro e Libertà, roba da 0,4% grazie all' abbraccio mortale di Monti e Casini; e il matrimonio con Elisabetta Tulliani e famiglia, l' indecifrabile Rat Pack della politica italiana. Dell' ultimo Fini si dice un gran male, compresa la gestione dittatoriale del partito, il piazzare i suoi in qualunque interstizio di potere, gli infiniti errori strategici (l' esaltazione a fasi alterne del fascismo e del maggioritario, la pretesa di dimissioni di Tremonti...). Perfino la mancanza di pietas con i vecchi commilitoni. Chiedere, a questo proposito, a Guido Paglia, ex direttore della Comunicazione Rai che si rifiutò di firmare contratti per la società di produzione della madre della Tulliani. Fini e i suoi, dilettanti del potere, lo esercitarono nel peggiore dei modi possibili. Eppure è stato europeista - per chi ha a cuore il concetto di Europa -; ha avuto dei sani sussulti morali (dai lui stesso in seguito disattesi) prospettando una bell' idea di democrazia; e credendosi un piccolo Dio è caduto nel peccato più veniale degli dei, la gnocca. E si è circondato di yesmen che ne hanno assecondato la protervia. Fini non è stato né più né meno d' un italiano medio col miraggio dello statista. Ci ha delusi tutti. Ma ha soprattutto ha deluso se stesso. Al di là del coté giudiziario, credo questa sia la condanna peggiore... di Francesco Specchia

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