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Stimolazione cerebrale adattativagrande progresso 'made in Milano'

Un team di ricerca dell'università degli studi di Milano sta lavorando su soluzioni terapeutiche per la malattia di Parkinson in grado di adeguarsi continuamente alle condizioni dei pazienti

Maria Rita Montebelli
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È made in Italy, anzi, per l'esattezza made in Milan, l'ultima innovazione terapeutica per il trattamento del Parkinson. Un gruppo di ricercatori italiani guidato da Alberto Priori del centro di ricerca Aldo Ravelli per le terapie neurologiche sperimentali dell'università degli studi di Milano presso l'azienda socio sanitaria territoriale Santi Paolo e Carlo sta lavorando alla realizzazione di una stimolazione cerebrale profonda che si adatta continuamente, momento per momento, allo stato clinico del paziente parkinsoniano, a differenza di quella convenzionale, si adatta in modo automatico alle necessità cliniche del paziente in base all'attività cerebrale rilevata secondo per secondo essendo in tal modo sempre calibrata per lo stato del paziente. La ricerca ha coinvolto la fondazione Ca' Granda policlinico di Milano, l'università degli studi di Trieste e le università di Toronto, di Grenoble e di Wurtzburg. La stimolazione cerebrale profonda altrimenti nota come Dbs  - acronimo dell'inglese deep brain stimulation - è ormai da molti anni il trattamento d'elezione per la malattia di Parkinson, soprattutto quando i farmaci perdono il loro effetto. La Dbs convenzionale attualmente praticata sui pazienti consiste nell'impianto chirurgico di due elettrodi all'interno di una specifica zona del cervello - nota come subtalamo - che poi vengono connessi ad un piccolo stimolatore messo sotto la pelle vicino alla clavicola. In questo modo la stimolazione dura circa 5 anni in ogni paziente, poi la pila deve essere sostituita con un piccolo intervento. Paolo Rampini, direttore della Unità di neurochirurgia della fondazione Ca' Granda policlinico di Milano, spiega che “la Dbs convenzionale ha costituito il maggiore progresso della terapia del Parkinson negli ultimi venti anni, rivoluzionando completamente la qualità della vita dei pazienti in fase avanzata di malattia con scarsa risposta ai farmaci. Dopo venti anni dalla sua introduzione tuttavia si sono manifestati alcuni limiti della metodica convenzionale: primo fra tutti il fatto che la stimolazione viene erogata in modo costante al cervello del paziente con una intensità per forza di cose media”. La malattia di Parkinson nelle fasi avanzate è tuttavia una malattia fluttuante, che può cambiare lo stato del paziente in pochi secondi dal blocco totale a movimenti involontari molto invalidanti. Sulla rivista Neurology sono stati pubblicati i risultati del primo studio al mondo che ha testato il sistema di DBS adattativa – Adbs – che il team di ricerca italiano ha messo a punto: per 8 ore in 13 pazienti con malattia di Parkinson, i cui dispositivi sono stati impiantati presso l'unità di neurochirurgia del policlinico di Milano. Lo studio ha dimostrato che la metodica induce un miglioramento comparabile a quella convenzionale, è sicura, ben tollerata, riduce il consumo della batteria ma soprattutto riduce gli effetti collaterali osservati comunemente con quella convenzionale, come per esempio i movimenti involontari osservati quando l'azione del picco dei farmaci si somma alla stimolazione costante. Gli stimolatori impiantabili per Adbs – prodotti da uno spin‐off dell'università degli studi di Milano e del policlinico di Milano, Newronika, fondato da Priori —saranno pronti per essere commercializzati ed impiantati nei pazienti entro i prossimi 18‐24 mesi. “Siamo estremamente soddisfatti dei risultati che stiamo ottenendo – ha commentato Priori - tutto è cominciato grazie al lavoro di un gruppo di giovanissimi nel nostro primo laboratorio, che oggi si presentano come protagonisti di un'importantissima scoperta che sarà in grado di contrastare il Parkinson in modo ancora più efficace”. “Ormai i progressi della medicina sono possibili solo grazie alla collaborazione multidisciplinare tra ingegneri e medici – ha aggiunto Sara Marceglia, docente di bioingegneria all'università di Trieste - i nuovi programmi universitari dovrebbero introdurre meglio la possibilità di tale collaborazione”. (MATILDE SCUDERI)

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