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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Andrea Tempestini
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Se non ci fosse di mezzo Berlusconi, se cioè il Cavaliere non potesse trarne beneficio, liberandosi in un sol colpo dalla tagliola giudiziaria che lo tiene imprigionato fin dal giorno in cui si è buttato in politica, sono certo che il Pd accoglierebbe con entusiasmo l'idea di ripristinare l'immunità parlamentare.  A cominciare da D'Alema, i compagni di Bersani accetterebbero la reintroduzione dell'articolo 68 al solo scopo di sottrarsi all'abbraccio della magistratura, la quale da anni li condiziona e li tiene sottomessi. Che questo sia il sentimento prevalente nelle file del Partito democratico lo si capisce anche da quanto dichiarato da esponenti del calibro di Luciano Violante, l'uomo più vicino alle procure, o di Silvio Sircana, il porta croce di Prodi, senza trascurare l'opinione di Franca Chiaromonte, che è firmataria di un disegno di legge sulla materia, o di Mario Barbi, il quale si è rivolto ai colleghi con una lettera che sarebbe potuta essere stata scritta anche da Niccolò Ghedini. Se dentro il Partito democratico fanno finta di essere contro l'immunità parlamentare non è dunque per convinzione ma per calcolo. Da un lato temono che una volta affrancato dai guai giudiziari, Berlusconi rimanga davvero premier fino a 120 anni, come grazie a don Verzè minaccia di fare. Dall'altro sono spaventati  dalle possibili reazioni di Di Pietro e Travaglio e temono di perdere voti a favore delle ali estreme. Forse persino Bossi ha un problema simile, se è vero che ieri sera ha contestato l'ipotesi di ripristinare l'immunità. Del resto, che la Lega abbia un'anima ostile a Roma ladrona e al suo Parlamento non è un mistero, così come non lo è la capacità del Senatur di mettersi un po' di traverso per massimizzare visibilità e consensi. Comunque, la paura di un Cavaliere tenuto a Palazzo Chigi dall'elisir di lunga vita e di un partito giustizialista che prosciughi il loro bacino elettorale, alla fine  paralizza i progressisti, consentendogli solo di restar fermi senza fare nulla. Che è poi la specialità in cui eccelle Pier Luigi Bersani, il quale se c'è da prendere una decisione, pur essendo il segretario del partito, tendenzialmente si astiene, oppure, come accadde alle Regionali con le candidature di Vendola e della Bonino, si adegua a ciò che hanno deciso gli altri. Dopo questa riflessione risulta evidente che dal Pd non c'è da aspettarsi nulla di buono sul fronte dell'immunità, così come non c'è da attendere alcun soccorso neppure da Fli: visto l'odio che ha nei confronti del premier, piuttosto di dargli una mano Gianfranco Fini sarebbe perfino disposto ad ammettere che l'appartamento di Montecarlo è del cognato e che gli appalti in Rai alla suocera casalinga glieli ha fatti ottenere lui. Niente da fare neppure a casa Casini. Il presidente dell'Udc,  da buon democristiano, è il più favorevole alla reintroduzione dell'immunità anche perché, ci fosse stata, non si sarebbe visto portar via in manette l'uomo che per anni gli ha garantito i voti in Sicilia, senza i quali il suo partito alle ultime elezioni non sarebbe neanche entrato in Parlamento. Ma pur essendo sensibile alla questione, anche il capo centrista sa che eliminati i problemi giudiziari, Berlusconi dalla poltrona di presidente del Consiglio non lo toglie più nessuno. E dunque Pier Ferdinando farà di tutto per impedire che si ritorni alla Costituzione del 1947, a meno che contemporaneamente nella Carta non sia previsto un apposito articolo il quale impedisca al Cavaliere di candidarsi dal 2013 in poi, norma che dovrebbe però avere valore anche sui discendenti in linea diretta e pure indiretta. Insomma, dai banchi dell'opposizione non arriverà alcun sostegno a favore dell'immunità parlamentare. Chi al contrario, se volesse,  avrebbe titolo per darlo è Napolitano. Il capo dello Stato conosce bene la questione, perché era alla guida del Parlamento quando sull'onda di Tangentopoli fu deciso di abolire lo scudo agli onorevoli.  C'era lui al posto che ora occupa Fini quando Sergio Moroni si sparò un colpo in bocca perché accusato d'aver preso tangenti e fu  nonno Giorgio a leggere la lettera in cui il deputato socialista protestava la propria innocenza, spiegando di non aver mai  personalmente approfittato di una lira. In un libro di memorie il presidente ha scritto che quel giorno avrebbe dovuto reagire, esprimendo più apertamente  la sua inquietudine per una situazione che dava tutto il potere alla magistratura. Purtroppo per noi non lo fece, ma anzi tacque anche quando si votò la soppressione dell'articolo 68 della Costituzione,  fragile argine all'invadenza dei pm nella vita politica. In quel modo, come lui stesso ha scritto, si lasciò spazio a  un «clima da pogrom nei confronti della classe politica», agevolato da un Pds che «contava di trarre beneficio sul piano politico ed elettorale, da quella bufera che investiva soprattutto i partiti di governo».  Quello che accadde nel 1992 secondo Napolitano è chiarissimo. «L'adesione acritica a qualsiasi posizione e azione venisse dalla magistratura inquirente, l'amplificazione e generalizzazione delle risultanze di qualsiasi indagine, l'intimidazione nelle stesse aule parlamentari facevano parte di quello che fu chiamato “giustizialismo” e che costituì non solo un fattore di stravolgimento degli equilibri istituzionali, ma anche un ostacolo al  corretto svolgimento della funzione propria del Parlamento rispetto a esigenze reali di moralizzazione  e di rinnovamento».  Ecco, se il presidente della Repubblica ripetesse oggi quelle parole, scrivendole in un messaggio alle Camere come egli ha il potere di fare, allora forse il dibattito sull'immunità parlamentare prenderebbe un'altra piega e probabilmente anche la guerra dei vent'anni tra pm e politica. Ma, anche per scrivere, serve coraggio.

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