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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Riguardo al ruolo del presidente della Repubblica nel nostro Paese ci sono un prima e un dopo. Il prima si riferisce al periodo precedente l'elezione di Sandro Pertini: allora il capo dello Stato era una specie di silenzioso notaio, al quale competevano le nomine formali dei governi e la firma di leggi e decreti, nel pieno rispetto delle funzioni che la Costituzione  attribuisce all'alta funzione. Poi c'è il dopo Sandro Pertini in cui l'inquilino del Quirinale è invece diventato un esponente attivo del dibattito politico, che non si limita a tagliare nastri alle inaugurazioni o a stringere mani durante le cerimonie, ma esterna quotidianamente su qualsiasi materia e talvolta si contrappone al governo, correggendolo e in qualche caso pretendendo di dettargli la linea.  L'ex partigiano con la sua aria da nonno un po' svanito durante il suo settennato ne combinò di tutti i colori, compresa qualche gaffe internazionale. Fu lui a inaugurare la moda di scavalcare ed espropriare gli esecutivi delle proprie funzioni, intervenendo su temi non di competenza del Colle, compresa la politica estera o le misure riguardanti la sicurezza. Poi venne Cossiga, che se ne stette zitto per cinque anni ma negli ultimi due recuperò con gli interessi, levandosi tutti i sassolini accumulati nelle scarpe e provocando la reazione del Pci che cercò di farlo portar via con le ambulanze. Quindi arrivò Scalfaro, il quale approfittando di Tangentopoli e dell'agonia dei principali partiti, inaugurò una specie di Repubblica presidenziale, in cui il capo dello Stato faceva e disfaceva i governi, correggeva decreti e suggeriva leggi in base a un suo personale modo di vedere oppure secondo  quello delle procure. Dal Campanaro in poi il ruolo del Quirinale non è stato più lo stesso e anche se la Costituzione non lo prevede il presidente è diventato non l'arbitro di una partita disputata fra le forze politiche, ma una specie di giocatore anch'esso, che si contrappone alla maggioranza quando l'opposizione non è in grado di farlo. Fu Scalfaro a rassicurare Bossi nel ‘94, garantendogli che non avrebbe sciolto le Camere se la Lega avesse fatto cadere Berlusconi. Sempre il Madonnaro tenne a battesimo il governo di Lamberto Dini, scippando al Cavaliere la vittoria elettorale. I successori si sono mantenuti nel solco tracciato dal pio Oscar, intervenendo per tramite dei  loro uffici direttamente sulle leggi  prima ancora che fossero licenziate dai ministri o dalle Camere. Che ci siano norme scritte a più mani, con il concorso attivo del Quirinale, è infatti il segreto di Pulcinella che chiunque conosce e nessuno ammette. Ma nonostante il Colle si affretti a negare ogni qualvolta i giornali ne facciano cenno, è indubitabile che alcuni provvedimenti  siano rivisti dal Colle prima di vedere la luce. È successo con la legge Gasparri, epoca Ciampi, è ricapitato con il lodo Alfano, sotto il regno di Napolitano.  E l'elenco potrebbe continuare con altri esempi, soprattutto in materia di giustizia. Di fatto, rubando una brutta espressione usata per indicare il governo di banche e assicurazioni, siamo in presenza di un sistema duale, cioè di una guida a due teste e, come si sa, quando le teste son troppe capita di fare un po' di confusione, perché alla fine se entrambe pretendono di  indicare la direzione da imboccare c'è il rischio di restare fermi o di andare a sbattere. Esattamente ciò che è accaduto negli ultimi anni su una quantità di materie urgenti le quali avrebbero richiesto una mano ferma e tanto coraggio. Che uno dei guai grossi dell'Italia sia questa scarsa chiarezza di ruoli è noto a tutti, a cominciare da D'Alema e Fini, i quali  un tempo erano favorevoli a una riforma radicale del nostro sistema istituzionale. Il primo quando divenne presidente del Consiglio sognò uno sfoltimento del Parlamento e un rafforzamento dei poteri del capo del governo, a scapito ovviamente degli altri organi di contrappeso. Il secondo invece era decisamente per la nascita di una Repubblica presidenziale, in cui al capo dello Stato eletto dal popolo venissero attribuiti molti dei poteri che adesso ha il premier.  Ma ovviamente queste opinioni non tenevano conto di Berlusconi a Palazzo Chigi o al Quirinale. Erano tempi in cui o il Cavaliere non si era ancora buttato in politica o lo si dava per spacciato. Oggi che Silvio è ancora in piedi e conta di restarci per un bel po' si preferisce che il governo resti sotto tutela, così il consiglio dei ministri fa le leggi e il Colle gliele disfa. Non essendo capace di contrastare efficacemente l'esecutivo, l'opposizione si affida a San Giorgio. Sperando che prima o poi faccia il miracolo e uccida il drago.

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