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L'editoriale

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di Franco Bechis

Giulio Bucchi
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DI FRANCO BECHIS - Pierluigi Bersani voleva fare una impossibile class action contro «Libero» (la legge italiana non la prevede nei confronti della stampa), ma rischia ora di essere lui stesso vittima di quella strampalata idea. Amministratori pubblici e soprattutto membri dei collegi sindacali nominati dal Partito democratico nelle società controllate da comuni, province e regioni rischiano infatti seriamente il loro posto se hanno accettato l'obbligo imposto dal partito di cedere una parte dell'emolumento ricevuto. Come rivelato proprio da «Libero», nei loro regolamenti finanziari le strutture territoriali del Pd hanno previsto l'obbligo non solo per gli eletti, ma anche per i nominati, di cedere al partito una percentuale del proprio stipendio che oscilla a seconda delle zone fra l'8 e il 30 per cento. L'obbligo è in contrasto sia con i doveri di imparzialità della pubblica amministrazione (molti dei consiglieri coinvolti amministrano servizi pubblici), sia con le norme previste dal codice civile sull'indipendenza degli amministratori delle società per azioni e soprattutto su quella dei revisori dei conti. «Qualche problema», avverte ad esempio Giuseppe Consolo, deputato del Fli ma soprattutto uno dei professionisti italiani più esperti in diritto societario, «può nascere dalla seconda parte dell'articolo 2399 del codice civile». L'articolo in questione riguarda proprio sindaci e revisori dei conti, stabilendo le “cause di ineleggibilità e di decadenza”. Viene ad esempio decretata l'ineleggibilità o la decadenza dell'ufficio per “coloro che sono legati alle società o alle società da queste controllate o alle società che la controllano o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d'opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l'indipendenza”. Il caso dei nominati dal Pd obbligati a pagare una sorta di pizzo sulla poltrona ottenuta al partito rientra appunto in quei “rapporti di natura patrimoniale” in grado di comprometterne l'indipendenza. Il rischio di decadenza dall'incarico dunque c'è. E anche la possibilità che la magistratura proprio per fare rispettare l'articolo 2399 del codice civile chieda in ogni provincia o regione al Pd l'elenco dei “nominati” che pagano quel pizzo. Solo loro rischierebbero di decadere, mentre si salverebbero tutti quelli che hanno dato bidone al partito, mostrando evidentemente disponibilità prima della nomina e poi non  versando nemmeno un centesimo. Magari finiranno nelle liste di proscrizione che il Pd ha reso pubbliche ai suoi militanti come è accaduto in provincia de L'Aquila, ma non rischiano di perdere il posto. In attesa della magistratura l'azione può essere promossa dai cittadini utenti dei servizi pubblici assicurati da quelle società in cui il Pd ha praticamente affittato le poltrone. La mancanza di indipendenza degli amministratori, certificata dal rapporto finanziario diretto con il Partito democratico, pregiudica l'imparzialità con cui un servizio pubblico deve essere assicurato. Secondo la recente legge italiana è presupposto per addirittura due tipi di class action: quella che gli utenti del servizio pubblico possono intentare alla società in cui siedono i nominati che tradendo i provi doveri di imparzialità e indipendenza pagano il pizzo al partito cui evidentemente devono quell'incarico, e quella che può essere promossa da tutti i cittadini nei confronti della pubblica amministrazione che ha proceduto a quelle nomine in violazione degli stessi principi. Bersani quindi rischia per colpa del Pd di trascinare centinaia di società e amministrazioni pubbliche oltre a migliaia di consiglieri e revisori nella prima vera class action italiana contro la piaga della lottizzazione. È vero che anche altri partiti magari predicano bene e poi razzolano male, lottizzando tale e quale. Ma nessuno ha avuto l'impudenza di mettere nero su bianco le regole finanziarie della lottizzazione: ha potuto farlo la vera casta del Paese, che considera l'occupazione di società pubbliche un suo diritto e addirittura un suo vantaggio finanziario. Un errore che ora può costare caro al Pd. E i primi a rendersene conto, dietro le guasconate di Bersani in pubblico, sono i dirigenti e gli amministratori nazionali del partito. Che stanno già scaricando tutto sulle federazioni locali.

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