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L'editoriale di Vittorio Feltri "Forza America, reagisci"

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Il commento del fondatore di Libero del 12 settembre 2001. Cinque pensieri e una sola certezza: "Il mondo attende una risposta"

Andrea Tempestini
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Ripubblichiamo l'editoriale di Vittorio Feltri di Libero di mercoledì 12 settembre 2001. Primo pensiero.Forza America, per quel che vale siamo con te. Non sempre abbiamo approvato le tue scelte; sempre però siamo stati contro i tuoi nemici, che sono troppi anche fra quelli che tu hai aiutato, per esempio i coreani del Sud e i signorini della sinistra italiana, già comunista, già filosovietica,  ilopalestinese. Comprendiamo lo stato d'animo dei cittadini statunitensi, il morale sotto i tacchi ma anche la voglia accecante di vendetta. Non sappiamo se in loro prevarrà lo sconforto e l'abbattimento oppure il desiderio di pareggiare il conto. Conoscendo un po' quel popolo, optiamo per la seconda ipotesi. Nei prossimi giorni qualcosa succederà. Non prima tuttavia che il volto del nemico sia stato ben delineato. Chi sono, da dove vengono questi campioni mondiali di  errorismo? In attesa che qualcuno rivendichi l'ecatombe, galoppano le ipotesi. La vocazione a trasformarsi in kamikaze è dei palestinesi. Si imbottiscono di  splosivo, vanno e saltano per aria. Muoiono per la causa, e la causa è uccidere il nemico. Il nemico è Israele. Israele è appoggiato dagli Stati Uniti. Quindi colpirli potrebbe significare, per i palestinesi, una estensione del “fronte” bellico. Forse la nostra interpretazione è riduttiva. Ma non va dimenticato che alla notizia della strage, numerosi palestinesi hanno esultato. Le agenzie parlano di scene di entusiasmo. E questo vorrà pur dire qualcosa. Occorre aggiungere che tutto l'Islam è schierato con i palestinesi ed è contro l'Occidente. Il conflitto è fra due civiltà, due modi di concepire l'esistenza. L'Occidente è cristiano, individualista, liberale, difende i diritti umani, è democratico. L'Islam ha una sola legge, quella coranica. È per lo stato etico. L'infedele merita la morte. Insomma, caduto il muro di Berlino, ha acquistato importanza il muro del pianto. C'è sempre un muro per il quale ammazzarsi. Secondo pensiero. Un'azione di guerra come quella che ha sbriciolato le torri gemelle di New York richiede una grande organizzazione, di cui gli uomini di Arafat sarebbero privi. Noi però crediamo che l'elemento più difficile da trovare per compiere certe missioni sia quello umano. Trovato quello, cioè chi è disposto al  uicidio, il resto è dettaglio tecnico. Dirottare un aereo, dimostra la storia, è complicato ma si può. Poi è necessario saperlo pilotare e condurlo sull'obiettivo con fredda determinazione. Addestrare un kamikaze a manovrare la cloche: anche questo non è semplice ma si può. Rimane il problema di salire a bordo con le armi senza essere scoperti e di coordinare i piloti candidati al suicidio in maniera che il piano criminale si realizzi. Ma i problemi si risolvono. Ci sembra scontata la complicità di qualcuno. Chissà quanti immigrati filopalestinesi sbarcano il lunario in America. Assoldarne dieci o venti non sarà stata un'impresa lunare. Non è inoltre stupefacente il fatto che i terroristi non siano stati intercettati dai servizi segreti. Il terrorista è un uomo qualunque, come smascherarlo? Con lo scudo stellare ti proteggi dai missili, non dai pazzi che si gettano con l'apparecchio su un palazzo. Terzo pensiero. Da ieri il mondo è diverso. È stata  certificata la debolezza dei sistemi difensivi tradizionali, anche dei più sofisticati. La terza guerra mondiale la combatteranno, anzi la stanno combattendo loro, i terroristi. E mentre ci si attrezza per affrontarli, speriamo non si impossessino della bomba atomica. Abbiamo costatato che non hanno scrupoli. Uccidono decine di migliaia di persone per il divertimento e la soddisfazione dei palestinesi. Israele ne sa qualcosa da anni, adesso lo sanno anche i nostri cugini americani. I quali se reagiranno faranno tremare la terra. Fossimo in Saddam Hussein non dormiremmo sereni. Chiunque abbia favorito gli sterminatori farà una brutta fine. Il rischio naturalmente è che l'escalation della violenza sia poi inarrestabile. Quarto pensiero. Dopo l'accaduto, chi avrà il coraggio di salire a bordo di un jet? Almeno nei primi tempi, i trasporti, le comunicazioni, in fondo tutto ciò che è alla base della globalizzazione, andranno in crisi. Vincerà la paura in parecchi settori, incluse le Borse. E le economie già traballanti di molti Paesi sono destinate a risentirne pesantemente. Siamo consapevoli che preoccuparsi dell'economia dopo la strage delle torri gemelle possa apparire assurdo. Ma senza i tanto disprezzati soldi non si va da nessuna parte. Non si campa. Quinto pensiero. Quale reazione avrà Israele? Gli israeliani sono abituati a convivere col terrorismo. E hanno imparato che l'unico modo per combatterlo utilmente è prevenirlo con operazioni chirurgiche, cioè distruggendolo alla fonte. Non appena hanno un'informazione attendibile, partono per la spedizione punitiva. Lo stesso, presumibilmente, faranno gli americani. Aspettiamoci, di qui in poi, attacchi sistematici nei luoghi in cui il terrorismo palestinese (e non soltanto) è fecondo. Sesto pensiero. Noi italiani dobbiamo stare tranquilli? Dubitiamo. Se lo scontro è fra due mondi, due civiltà, due culture, è illusorio credere di rimanerne fuori. Di obiettivi simbolici la penisola è disseminata, per i terroristi c'è solo l'imbarazzo della scelta. Stiamo in campana. Da anni la maggioranza degli intellettuali e dei partiti di sinistra (ma non solo di sinistra) in politica internazionale è su posizioni filopalestinesi. In politica interna invece sono solidali con gli ebrei. Non è una contraddizione. È convenienza. Mero calcolo. Demonizzare la destra confondendola col fascismo è un bel gioco redditizio: gli ebrei non la votano e in più mettono a disposizione della sinistra il loro apparato. In campo internazionale, i progressisti, non più mossi da interessi elettorali, si rivelano: fanno l'occhiolino ai palestinesi i quali hanno un solo programma, eliminare fisicamente tutti gli israeliani. Giova rammentare che Arafat periodicamente viene qui ed è accolto come un re: dal presidente della Repubblica, dal presidente del Consiglio, dal Papa, da chiunque abbia un potere. Andreotti, Craxi, Pertini, Berlusconi, Ciampi: chi non ha stretto la mano al capo dei terroristi palestinesi si faccia avanti. Conosciamo le ragioni addotte da chi si è inchinato ad Arafat: meglio tenere buoni i rapporti con lui, chissà che ci risparmi. Non ci risparmierà. Nel momento in cui saremo chiamati a ribadire l'amicizia con gli Stati Uniti (le alleanze sono alleanze), la nostra esposizione sarà netta. Nonostante gli inciuci. Siamo occidentali, nemici dell'Islam. Settimo pensiero. L'antiamericanismo è un male antico di cui soffrono specialmente coloro che dagli americani hanno avuto benefici. Nella Corea del Sud, sottratta al comunismo dagli Usa e sviluppatasi in maniera travolgente (è una specie di Giappone di serie B), le manifestazioni antistatunitensi sono quotidiane. Idem in Italia, almeno in passato. Quando l'Unione Sovietica puntò contro di noi i missili nucleari, e gli Stati Uniti risposero installando i Cruise a Comiso, i comunisti e i pacifisti sfilarono al grido: meglio rossi che morti. Oggi quelli che ce l'hanno con i McDonald's e con la Coca-Cola per la globalizzazione, in fondo sono i continuatori dell'antiamericanismo. Un odio culturale dello stesso seme che ha generato i mostri suicidi e stragisti. Essere invece amici degli americani vuol dire due cose semplici e pulite: avere gratitudine per chi ci ha dato una mano nel momento del bisogno; accettare una civiltà di cui siamo impregnati senza farsene schiavizzare. Come? Ricordando chi siamo, italiani. di Vittorio Feltri

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