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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Andrea Tempestini
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Le guerre fra correnti di solito non mi appassionano.  Si tratta di lotte di potere, la cui posta in palio si riduce al numero di poltrone da occupare o, quando va bene, a chi debba  guidare il partito. La battaglia che sta infuriando nella Lega, però, è di altro tipo. Qui non ci sono solo in ballo i posti al vertice o la leadership, ma a mio parere la stessa sopravvivenza del movimento fondato da Bossi e Maroni trent'anni fa. O per lo meno del Carroccio che ci siamo abituati a conoscere, con i suoi riti, i suoi dirigenti, la sua linea politica. Che i due capi, il numero uno riconosciuto e venerato dalla base e il suo eterno vice, siano ai ferri corti è cosa nota. Ma se fino ad oggi Umberto e Roberto hanno cercato di mascherare la rottura, dando una parvenza di coesione nelle decisioni, l'episodio accaduto ieri alla Camera con la bocciatura della richiesta d'arresto di Nicola Cosentino traccia un solco netto, che sarà difficile superare. Per capire meglio di che cosa si tratti e quali possano essere gli esiti, conviene però ripercorrere ciò che è avvenuto negli ultimi mesi. Dietro il sipario che da sempre nasconde le cose all'interno della Lega, si è consumato uno scontro senza esclusione di colpi. Da una parte il cosiddetto cerchio magico, ovvero la guardia pretoriana del leader, un gruppo cresciuto e cementatosi attorno a Bossi e alla sua famiglia negli anni della malattia e di cui fanno parte Rosi Mauro, Marco Reguzzoni, Federico Bricolo e il tesoriere Francesco Belsito. Dall'altra Maroni con i suoi fedelissimi, Flavio Tosi, Matteo Salvini e gran parte dei sindaci. Il primo schieramento lo scorso anno ha perso molto del suo potere, ma può sempre contare sulla figura del capo, il quale seppur malato e costretto a un'attività politica ridotta a un'ora o due al giorno, è un totem per  i militanti. L'ex ministro dell'Interno, al contrario, di potere  ne ha acquisito sempre di più e ora può contare sulla maggioranza dei deputati e su un certo numero di capi e capetti nel movimento.  Secondo i «legologi», cioè i cronisti abituati a registrare ogni sussulto  nel Carroccio, ormai lo spadone di Alberto da Giussano ce l'ha in mano lui, basti  vedere quel che è successo a Pontida, quando il popolo lo ha acclamato come il successore di Bossi. Il che sarà anche vero, ma fino ad oggi l'ex numero uno del Viminale ha evitato la conta. Lo scontro non si è dunque consumato in campo aperto, ma in tante piccole scaramucce. La più nota è quella che riguarda l'elezione del segretario provinciale di Varese, la provincia culla della Lega. I maroniani erano pronti a far eleggere un fedelissimo, ma il cerchio magico preferiva uno dei bossiani. È finita con la vittoria di questi ultimi, ma dopo una contestazione pubblica diretta contro il leader. Un'altra battaglia è quella che si consuma attorno a Renzo Bossi, soprannominato il Trota dallo stesso Umberto. Da quando è stato eletto in Consiglio regionale,  non c'è pace: l'assessore che lo ha tenuto a battesimo è finita nel mirino, accusata di colpi bassi contro gli avversari. Intrighi, dossier, festini: ogni mese ha la sua novità e c'è chi sospetta che a soffiare sul fuoco siano i fedelissimi dell'ex ministro dell'Interno. L'ultimo episodio riguarda il tesoro della Lega: 10 milioni di euro incassati con il finanziamento pubblico e girati su conti esteri per operazioni spericolate in Tanzania e a Cipro. Chi ha passato la notizia ai giornali? Un dipendente infedele della banca che ha fatto l'operazione o un leghista che punta a regolare i conti? Nella guerra ci ha rimesso le penne pure il direttore della Padania, Leonardo Boriani, voluto da Bossi ma sospettato di intelligenza con il nemico. Risultato: è stato messo alla porta dagli uomini del cerchio magico. Su questo clima da sospetto e antichi veleni, dove in pochi dentro la Lega stanno alla finestra, è calata ieri la votazione della Camera, quella che ha salvato Nicola Cosentino. Fino all'altro ieri, la linea del Carroccio era chiara e sembrava aver condannato il coordinatore campano del Pdl al carcere. Ma poi, nella sera tra mercoledì e giovedì, qualcosa è cambiato. Bossi, smentendo la decisione della segreteria di partito, ha dato libertà di coscienza ai suoi, dichiarando che nelle carte contro l'ex sottosegretario all'Economia non c'era nulla di penalmente rilevante. Una decisione presa all'insaputa di Maroni, il quale, essendosi già sbilanciato per il sì all'arresto, non l'ha presa bene, rilasciando dichiarazioni piccate. In altri tempi, quando Umberto era in forma e Roberto meno in vista, le cose si sarebbero ricomposte con calma. Maroni se ne sarebbe stato un po' in un angolo, come quando Bossi lo mandò avanti a trattare con Martinazzoli e con Berlusconi per poi mollarlo, e infine tutto sarebbe ripreso come prima. Ma ora no. Il clima avvelenato e l'aria da resa dei conti che si respira non fanno ben pensare. Da un lato c'è un leader malato e stanco che sembra avere perso il tocco magico conservando solo il cerchio magico. Dall'altra un delfino che è stanco di aspettare il suo turno, ma non pare ancora pronto per il regicidio. Sullo sfondo una linea politica poco chiara. Prima inseparabile da quella di Berlusconi, poi via via sempre più lontana ma senza che si sia mai giunti a una rottura vera. Una linea che non ha portato buoni risultati: non al federalismo così come era stato annunciato, non a successi sui fronti caldi che interessano all'elettorato del Carroccio. La sensazione è che dopo l'ultimo strappo la battaglia si farà più dura, ma senza un prevalere degli uni sugli altri. Con il risultato di avviare il Carroccio su una strada incerta, se non addirittura verso il divorzio. Una cosa è sicura. Il centrodestra così come l'abbiamo visto negli ultimi anni, con la Lega e il Pdl a marciare affiancati, non lo vedremo più. È finita l'epoca di Berlusconi e del suo Popolo della libertà. Ma anche quella di Bossi e delle guardie padane.   

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