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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Venerdì Mario Monti si è fatto prendere la mano. Preso dall'entusiasmo con cui sulle pagine dei giornali viene accolta ogni sua apparizione pubblica, il presidente del Consiglio ha dato i numeri. Le cifre sono da capogiro: il decreto «Cresci Italia» farà salire il Prodotto interno lordo dell'11 per cento, il consumo privato e l'occupazione dell'8, i salari del 12 e, per finire in bellezza, gli investimenti del 18. Cosa abbia convinto il premier della possibilità che si verifichi una simile progressione di effetti speciali è un mistero. Difficile credere che i distributori self service fuori città generino un aumento del Pil. Altrettanto improbabile che un confronto fra diverse polizze sui mutui consenta un'espansione dell'economia. La verità è che la ricaduta dei provvedimenti decisi dal governo è una grande incognita. Nessuno oggi sa dire con certezza quali saranno i benefici e se davvero gli interventi porteranno risparmi alle famiglie e alle imprese o se, come accaduto in passato, i risultati saranno scarsi. Tuttavia, se restano dubbie le conseguenze delle liberalizzazioni varate, una cosa è certa: il decreto ha messo mano a molti settori, tranne a quello in cui i guadagni sarebbero stati sicuri. Più che misure riguardanti taxi, farmacie e professionisti, ciò di cui c'era soprattutto bisogno era una vera liberalizzazione della burocrazia, la più mastodontica rendita di posizione che impedisce all'economia di decollare. Qui non c'è bisogno di stime per misurare i vantaggi, in quanto nel corso degli anni ne sono state fatte a iosa. La Cgia di Mestre ha valutato che un intervento sulla pubblica amministrazione e sul sistema di regole che opprime le imprese varrebbe ogni anno un punto di Pil. La ricerca di Unioncamere non si discosta di molto: 1,1 del Prodotto interno lordo. Ma la valutazione più dettagliata è dell'Antitrust, cioè della commissione che vigila sulla concorrenza, la quale sostiene che il costo della burocrazia per le sole imprese vale 61 miliardi di euro e riducendo del 25 per cento le scartoffie che ogni azienda è costretta a tenere in ordine, avremmo l'1,7 per cento di Pil in più. Lo studio porta la firma di Antonio Catricalà, oggi non più alla guida dell'Antitrust ma diventato il braccio destro di Mario Monti, per il quale ricopre l'incarico che fu di Gianni Letta. Perché il nuovo sottosegretario di Palazzo Chigi si è dimenticato ciò che sosteneva tempo fa a proposito del peso dello Stato sulle imprese, preferendo prendersela con i tassisti e gli avvocati? Mistero. Sta di fatto che, mentre si parla di liberalizzare l'orario dei negozi e anche quello dei benzinai, di liberalizzare gli orari, gli uffici e i vertici della pubblica amministrazione non si fa neppure cenno. Così, per ottenere un documento o adempiere una pratica, le persone comuni o i dipendenti di un'azienda sono costretti a mettersi in fila, perdendo tempo e denaro. Ma se si può aprire un supermercato la sera, cosa vieta di far la stessa cosa con un ministero o col Consiglio di Stato? Dispiace al sindacato? Oppure a mettersi di mezzo è quella supercasta di burocrati che alle 17 vuole timbrare il cartellino e preferisce limitare i contatti con il pubblico alle ore del mattino per farsi nel pomeriggio gli affari propri? E perché, mentre si richiede la concorrenza nelle farmacie e si cancellano i privilegi dei professionisti, nulla si fa nei confronti dei burocrati? Loro non devono confrontarsi con altri? Non vorremmo pensar male, ma il sospetto è forte. Anche perché, mentre tutto cambia, ciò che non cambia mai è proprio l'oligarchia che nell'amministrazione statale fa il bello e il cattivo tempo. Venerdì, sul Corriere della Sera, il professor Ernesto Galli della Loggia se la prendeva con i dirigenti dei ministeri, delle authority, con i grandi funzionari di Stato e con la pletora di consiglieri e magistrati, definendoli un regime. Una sorta di governo ombra più forte e radicato di quello regolarmente eletto. Un potere occulto che attraversa indenne ogni crisi di governo e resiste a qualsiasi scossone. «Gli stessi nomi che passano vorticosamente da un posto all'altro, da un gabinetto a un ente, da un tribunale a un ministero, da un incarico extragiudiziale a quello successivo».  Sarà un caso, ma guardando la struttura di vertice che regge le nostre Finanze, si può notare che a farne parte ora che c'è Mario Monti sono gli stessi uomini che in precedenza occupavano quelle poltrone con Giulio Tremonti e prima ancora con Tommaso Padoa-Schioppa e Domenico Siniscalco. Vittorio Grilli, oggi vice ministro dell'Economia, per lunghi anni è stato il direttore generale del Tesoro e prima ancora il ragioniere generale dello Stato. Vincenzo Fortunato, che del premier è il capo di gabinetto in via XX Settembre, ricopre l'incarico dal 2001 e ha visto passare ogni maggioranza, compresa quella di Prodi e Di Pietro. Mario Canzio, che è il ragioniere dello Stato, cioè colui che tiene l'elenco dei conti, ricopre l'incarico dal 2005 e in precedenza era tra i massimi dirigenti del Tesoro. Insomma, i cordoni della borsa, indipendentemente dal colore del governo, sono nelle loro mani. L'Economia è un esempio, ma l'elenco potrebbe continuare con altri ministeri e altre istituzioni, perché l'oligarchia burocratica è assai ramificata. E soprattutto intoccabile. Nessun esecutivo, neanche quello dei tecnici (forse perché tra loro ci sono tanti alti papaveri di Stato), vi ha mai messo mano.  Se davvero il premier vuole far correre questo Paese, cominci dalla supercasta. Dall'unico potere forte che i governi deboli non sfidano mai. di Maurizio Belpietro

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