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20 settembre 1870, attacco a Roma: le operazioni militari nel dettaglio

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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«La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città Eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida Capitale del Regno Italico». Così Cavour identificava il destino d’Italia con questa dichiarazione in Parlamento dell’11 ottobre 1860. Ci vollero dieci anni per realizzare una delle tappe più significative per l’Unificazione Nazionale, iniziata con l’epopea garibaldina e definitivamente compiuta con l’annessione della Venezia Giulia e del Trentino dopo la Grande Guerra.

Il momento propizio scaturì dalla sconfitta della Francia a Sedan, nel 1870, contro la Prussia. La guarnigione francese a Roma a protezione del papa veniva ritirata e così  sparivano all’improvviso, tutti gli ostacoli che si erano opposti alla soluzione della cosiddetta «Questione Romana» (che si concluderà definitivamente solo nel 1929, con i Patti Lateranensi).

Era stato fatto un ultimo, estremo tentativo per un pacifico accordo con il Papa, ma l’intransigenza della Corte Pontificia fece rimanere inascoltato anche l’appello con il quale Vittorio Emanuele II si era rivolto a Pio IX.

Il Regio Esercito italiano – spiega la Rivista Militare nel fascicolo storico del numero di settembre - già tre giorni dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, il 5 settembre 1870, si trovava già nei pressi di Spoleto con tre divisioni puntate su Roma: l’11ª comandata dal Generale Enrico Cosenz, accampata a Rieti, la 12ª, guidata dal Generale Gustavo Mazè de La Roche a Terni e infine la 13ª agli ordini del Generale Emilio Ferrero, a Orvieto. A capo dell’operazione, il prudente ed energico generale Raffaele Cadorna. (Qui l’approfondimento)

Per parare eventuali imprevisti e scoraggiare ogni volontà di resistere da parte delle truppe papaline, furono aggiunte, nell’imminenza dell’attacco, altre due divisioni: la 9ª agli ordini del Generale Diego Angioletti in afflusso dal sud Italia e la 2ª agli ordini del Generale Bixio, che avrebbe minacciato Roma provenendo da Civitavecchia. Come spiega il Generale Antonio Lotito, nel pomeriggio del giorno 11, il primo ad entrare nel territorio dello Stato Pontificio fu proprio Nino Bixio, il quale avanzò verso Bagnoregio. Gli ordini di Kanzler, comandante dell’Esercito Pontificio, erano di “resistere all’attacco delle camicie rosse, ma in caso d’invasione da parte dell’Esercito Italiano, l’ordine era di ripiegare verso Roma”. Così fecero gli Zuavi di stanza nelle località via via occupate. Il 12 settembre, mentre tutte le divisioni italiane varcavano il confine dello Stato pontificio, Kanzler dichiarava lo stato d’assedio nella città.

Il primo scontro avviene per la conquista di Civita Castellana, con 3 feriti fra i papalini e 7 fra gli italiani; Civitavecchia capitola il 16 settembre senza opporre resistenza alla divisione di Bixio. In località Sant’Onofrio, a pochi km dal centro di Roma, durante lo scontro a fuoco con gli zuavi papalini in ritirata, gli italiani hanno il primo caduto: il sergente Tommaso Bonezzi, dei Lancieri di Novara. Il 17, le truppe italiane varcano il Tevere ed ogni divisione occupa le posizioni previste dal piano d’attacco. Come riporta il Colonnello Attilio Vigevano nel suo volume “La fine dell’Esercito Pontificio”, complessivamente, il Regio Esercito schiera: 60 battaglioni di fanteria di linea, 17 battaglioni bersaglieri, 20 squadroni di cavalleria, 19 batterie di artiglieria, 9 compagnie zappatori del genio, con 7.300 cavalli e 114 cannoni. Spiega il Generale Lotito: «In prossimità delle mura della Città Eterna vennero schierate le artiglierie in organico alle divisioni, più quelle della riserva. Le artiglierie divisionali avrebbero dovuto effettuare dei tiri di disturbo, per favorire l’assalto delle truppe. Quelle della riserva, destinate all’effettuazione del cosiddetto “tiro di breccia”, avrebbero dovuto aprire un varco nella cinta muraria». Intorno alle 5,10 del 20 settembre, con cinque minuti di anticipo, l’artiglieria italiana apre il fuoco contro le Mura aureliane mentre nei dintorni assistono alle operazioni una moltitudine di civili, tra cui giornalisti, pittori, patrioti romani già esiliati, oltre a un eterogeneo insieme di ambulanti, curiosi e persino saltimbanchi e giocolieri. Come ricorda Assobersaglieri: «Alle 9.05 i vertici pontifici si riuniscono a palazzo Wedekind, (di fronte a Montecitorio, noto ai romani come sede storica del quotidiano “Il Tempo”) per decidere fino a quando protrarre la resistenza. Intorno alle 9.45, il fuoco delle batterie della riserva italiane apre una breccia fra Porta Pia e Porta Salaria, così il Generale Cadorna dà l’ordine di inizio movimento alle truppe verso le mura: una pattuglia di bersaglieri va in avanscoperta fin sotto la breccia e riferisce che ormai lo sventramento effettuato è percorribile da truppe appiedate». Vengono quindi predisposti per l’assalto finale il 34° battaglione bersaglieri e 3 battaglioni del 19° reggimento di fanteria da Villa Albani, il 12° battaglione bersaglieri e il 2° battaglione del 41° fanteria da Villa Falzacappa, quindi il 35° battaglione bersaglieri con il 39° e il 40° reggimento fanteria da Villa Patrizi. Sono le 10,05 e tutto sembra finito, ma fuori dalla breccia ci sono due divisioni di soldati italiani che si ammassano e spingono per entrare nella città. A poche decine di metri, altri pontifici che trovandosi a Villa Bonaparte non hanno ancora ricevuto l’ordine di resa, aprono un fitto fuoco di fucileria sulla massa di militari italiani ancora fuori Porta Pia e uccidono 4 bersaglieri, fra cui il Maggiore Giacomo Pagliari, ferendo altri 9 soldati di varie specialità. C’è un momento di smarrimento, di stasi, ma alle 10.10 i bersaglieri del 12° battaglione avanzano al passo di carica, baionetta inastata e, incitati dalle note che il trombettiere suona per dare ancora più vigore all’assalto, superano la breccia regalandoci quella icona risorgimentale che rimarrà impressa nell’immaginario collettivo e nei testi di Storia. Il primo bersagliere a superare la breccia è il Sottotenente Federico Cocito, del 12° battaglione. Passati i primi fanti piumati, un boato di esultanza si leva dalle divisioni che premono dietro di essi per entrare nella Città Eterna, quella che ora sarà la capitale della nuova Italia. Conclude il Generale Lotito: «Mentre la resistenza cessava a Porta Pia, la bandiera bianca fu issata lungo tutta la linea delle mura. I Generali Ferrero e Angioletti la rispettarono, invece Bixio continuò il bombardamento per circa mezz’ora». Mazè e Cosenz proseguirono nel loro assalto, le truppe italiane oltrepassarono la breccia sparando, facendo prigionieri e irrompendo dentro la cinta muraria; vi furono ancora scontri qua e là che si spensero in poche ore con la resa chiesta dal Generale Kanzler. Venne stabilito che le milizie pontificie sarebbero uscite dalla città con gli onori di guerra e che la Città Leonina sarebbe rimasta al Pontefice. Per ordine di Cadorna, così come convenuto con il Governo, non furono occupate la Città Leonina, Castel Sant’Angelo, i colli Vaticano e il Gianicolo.

Si realizzava, in tale modo, una delle missioni affidate alla Forza Armata all’atto della sua istituzione il 4 maggio 1861: fare l’Italia.

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