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Houellebecq, il coronavirus e l'impressione del "non-evento". Cos'è un evento?

Andrea Tempestini
Andrea Tempestini

Milanese convinto, classe 1986, a "Libero" dal 2010, vicedirettore e digital editor. Il mio sogno frustrato è l'Nba. Adoro Vespe, gatti, negroni e mr. Panofsky.

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Questa epidemia poteva anche fare qualche migliaio di morti tutti i giorni nel mondo, produceva comunque la curiosa impressione di essere un non-evento"
(Michael Houellebecq)

Forse in questa frase c'è l'irrimediabile tendenza dell'intellettuale a voler stupire. Francamente, definire un "non-evento" il coronavirus (seppur parlando di "impressione") fa sgranare gli occhi. O forse non vi è alcuna tendenza eccentrica, bensì la convinzione che quando tutto sarà finito, tutto (sistema / Storia) sarà uguale ma soltanto un po' peggiore (diffidenza, povertà, paranoia). E "tutto sarà uguale ma soltanto un po' peggiore" è la sintesi delle centinaia di titolazioni che hanno rilanciato il pensiero di Houellebecq.

A corredo, lo scrittore sottolinea come nel mondo intellettuale "non ne parlavano granché, preferivano affrontare la questione del confinamento". Ed è vero: non il virus in sé, ma gli effetti del lockdown sulle nostre individualità (un amico che stimo sosteneva qualche giorno fa di non aver trovato in queste lunghe settimane nulla di interessante da leggere "sul coronavirus". Il riferimento era ovviamente non alle cronache, ma al pensiero, agli "intellettuali". Non so se sia effettivamente così, ma intanto sono due pareri che vanno nella stessa direzione).

Lasciamo la questione in sospeso. Semmai ci si può spendere in qualche considerazione spiccia, molto più terra a terra. Tipo: siamo qui a dannarci pensando a che ne sarà della nostre vacanze; le videochiamate sembrano un lontano ricordo, ci hanno annoiato; il bollettino di Borrelli non c'è più e - da giorni, forse settimane - non "interessa" più; ci chiediamo quando potremo tornare al ristorante; imprechiamo per le palestre chiuse; ci danniamo per i chili di troppo presi mentre eravamo tappati in casa. Insomma, una discreta normalità rispetto alla portata storica dell'evento storico, rispetto alla pandemia (con tutto l'ovvio rispetto per chi ha perso persone davvero vicine: la loro vita è indubbiamente cambiata, ma - brutalmente - a livello statistico sono una piccola minoranza).

Mentre questo "non-evento" ci teneva tappati in casa, pur tra mille pensieri inediti, abbiamo spesso coltivato più noia che paura. Non abbiamo sofferto la fame e semmai ci siamo chiesti se avremo ancora un lavoro. Non abbiamo cercato un rifugio quanto un diversivo. La stragrande maggioranza di noi non ha mai pensato di morire.

Certo, resto convinto - arciconvinto - del fatto che (al netto delle conseguenze economiche che avrà nel breve o lungo periodo tutto ciò che stiamo vivendo) tra vent'anni dei giorni del coronavirus ne parleremo come qualcosa di assolutamente eccezionale. Come di un "evento". E le parole di Houellebecq non riescono a modificare questa personale certezza. Semplicemente - io autocentrato e individualista un po' come tutti - vengo spinto ad interrogarmi sulla definizione di "evento". E se quest'ultima avesse ben poco a che fare con la mia persona e il (mio) racconto, il "non-evento" (per quanto la parola "impressione" potrebbe cambiare tutte le carte in tavola) assumerebbe parecchia consistenza. 

"Lo svolgimento di questa epidemia è anzi notevolmente normale", aggiunge Houellebecq. Io non lo so. Di sicuro, per quelli-come-me (la maggioranza identificabile dalle varie premesse scritte fina ad ora) l'epidemia ha segnato un profondo scostamento dalla normalità che si è sviluppato in un contesto normalissimo e con azioni normalissime (casa, computer, lavoro, incazzati, salta la corda, riconciliati, fuma, mangia, bevi, dormi).

Resta solo da capire che si intende per "evento" (e se "impressione" può essere realtà).

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