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Le lettere dal carcere di Navalny "chiuso in una scatola"

In onda su Radio3 Va in onda sulla vostra Radio Tre lo spettacolo teatrale che ripercorre gli ultimi mesi della prigionia del dissidente. Il suo testo è tragico ma ironico poiché irrita il regime

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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 Navalny in carcere Foto:  Navalny in carcere
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Combattere il mostro a stilettate d’ironia, è la missione. «Ora ho capito. Sto facendo un viaggio nello spazio. Sono stato sequestrato da alieni che vengono da Omicron Persei 8. E siccome non capiscono la mente umana, hanno creato un’intelligenza artificiale che osserva i prigionieri e dà consigli ai carcerieri su come sottomettere l’umanità». 

Così, allenandosi ogni giorno a trasformare il dolore in sorrisi, Aleksej Navalny raccontava al mondo la sua prigionia il suo viaggio nello spazio, «da una cella di punizione all’altra, fino alla colonia penale a regime speciale IK-3, oltre la linea del Circolo polare artico». E così, sabato prossimo, per omaggiarne la fiammeggiante figura a un mese dalla morte, va in scena una serata/reading –ripresa da Radio3 Rai dagli studi romani di via Asiago- intitolato, appunto,Il viaggio nello spazio di Aleksej Navalny Messaggi di un dissidente dalle colonie penali russe. Si tratta di un exploit drammaturgia dell’attore Francesco Villano (per una voluta del destino, di solito, recita Dostoevskij) contrappuntato, per la parte cronistica dallo scrittore giornalista Luigi Spinola, dove gli ultimi mesi di vita del dissidente diventano materiale lirico evocando i «tweet, i ragionamenti sul mondo, la politica, la letteratura, inviati durante gli oltre mille giorni di prigionia».

MANDARE IN ORBITA Ma non sfugge agli storici il riferimento spaziale al regime sovietico che mandava in galera gli oppositori per 15 giorni, li liberava per 24 ore e poi li ingabbiava di nuovo, indicando sarcasticamente la procedura come «mandare in orbita». Ecco, Navalny, con il suo corpo straziato, calpestato, avvelenato e i suoi pensieri offerti alla storia, è andato in orbita. Ma attraverso questi suoi scritti inediti e tradotti direttamente dal russo ha lasciato ai posteri una traccia di libertà che spazia tra le opere di Primo Levi e le Lettere dal carcere di Gramsci. Dentro questi memoir vibra  tutta la dignità di una vita incoercibile. Per esempio, parte sulla sua giornata tipo nel carcere di Malekhovo, e ricorda quella nei lager di Levi: «La sveglia qui suona alle sei. Hai dieci minuti per rifare il letto, lavarti, raderti. Alle sei e dieci ginnastica. Alle 620 mi vengono a prendere per la colazione. Alle sei e quaranta mi perquisiscono e mi portano alla mia postazione di lavoro, davanti a una macchina da cucire. Lo sgabello è basso basso. Non mi arriva neanche al ginocchio. Rimango lì seduto per sette ore, tranne appunto, una pausa pranzo di un quarto d’ora alle 10.20. Più o meno quando Putin si mette a tavola per fare colazione».

E  prosegue: «Quando il lavoro è finito, devo restare un altro paio d’ore seduto su una panca di legno sotto un ritratto di Putin. La chiamano attività disciplinare. Il fine settimana il programma cambia. Sabato lavoro per cinque ore, poi mi siedo sulla panca sotto il ritratto di Putin. La domenica in teoria è dedicata al riposo. Ma gli specialisti che pianificano le nostre giornate sono esperti in tecniche di rilassamento. Così la domenica restiamo seduti sulla panca di legno per dieci ore».

Navalny, ovviamente in cella non aveva smartphone, non poteva twittare né comunicare in alcun modo con l’esterno. Eppure, riusciva a trasmettere al mondo le sue riflessioni possenti con un metodo artigianale: passava biglietti autografi  ai suoi avvocati quando poteva incontrali, scriveva su carta e appoggiava i pizzini sul divisore di plastica del parlatorio. I messaggi finivano direttamente sui social e i suoi avvocati spesso  in galera; ma il racconto di Navalny invadeva le menti libere.

 Scrive Aleksej: «Sono qui da poco. Mi hanno portato a Melekhovo dalla prigione di Pokrov circa due settimane fa. Anche a Pokrov avevano preparato per me una prigione nella prigione. La mia cella aveva le finestre coperte di cartone. Mi sembrava di essere rinchiuso in una scatola di scarpe. Ogni notte, le guardie mi svegliavano otto-nove volte, per confermare a una telecamera, che sì, il prigioniero si trova nella sua cella». L’immaginario del prigioniero travalica lo spazio fisico della cella. Navalny leggendo le memorie di Nathan Sharansky, dissidente che ha passato nove anni in un Gulag nel 1977, ne costruisce un carteggio di fantasia: «Caro Nathan, qui Aleksej Navalny. Un saluto dall’oblast di Vladimir, anche se non sono certo che tu abbia conservato dei bei ricordi di questo posto. Perdona l’intrusione, e la lettera da uno sconosciuto, ma credo sia accettabile nella relazione tra un autore e un lettore. Ho appena finito il tuo libro, mentre mi trovavo in isolamento. Mi sono divertito molto a leggere dei tuoi incessanti passaggi dal regime di isolamento a quello punitivo, grazie alle astuzie burocratiche dei carcerieri. Mi sono divertito, perché mi rendo conto che né l’essenza del sistema, né le sue pratiche sono cambiate da allora». E sul libro dell’illustre collega specifica: «Il tuo libro mi dà speranza perché la somiglianza tra i due sistemi, l’Unione Sovietica e la Russia putinista, la loro affinità ideologica, l’ipocrisia che ne costituisce l’essenza, garantiscono il medesimo, inevitabile collasso. Tu scrivi che i dissidenti in prigione hanno tenuto in circolazione il virus della libertà, e quanto è importante impedire al Kgb di allora e di sempre di inventare un vaccino contro questo virus».

L’idea di questo «virus della libertà» come unica arma contro i totalitarismi russi di ogni tempo è un refrain da sempre di tutta la poetica d’opposizione di Navalny. Il quale davanti ad esso oppone stati d’animo contrastanti: «Purtroppo, il vaccino al virus lo hanno inventato, grazie a tutti noi. Abbiamo pensato che per il bene superiore fosse giusto truccare un po’ le elezioni, influenzare un po’ i magistrati, reprimere un po’ la stampa. Queste piccole cose, e la convinzione che sia possibile modernizzare l’autoritarismo e renderlo accettabile sono gli ingredienti di questo vaccino. Malgrado questo, il virus non è stato sradicato, tutt’altro. Siamo in molti a non aver paura di chiedere libertà e a schierarci contro la guerra, malgrado le minacce». 

Dopodiché, Navalny viene trasferito nell’ultima colonia penale, detta “Lupo polare”, dove  morirà. Ed è lì, con la consapevolezza di venire quotidianamente avvelenato dai suoi carceriere, che esprime a colpi di metafore e immagini cinematografiche un’ironia invincibile: «Rieccomi, sono il vostro nuovo Babbo Natale. Adesso ho un cappotto di pelle di pecora, un colbacco e presto, se tutto andrà bene, magari avrò anche delle valenki ai piedi. Durante il viaggio, mi sono fatto crescere la barba. Le renne non ci sono, ma arrivando ho visto degli enormi cani da pastore. Ora vivo sopra il circolo polare artico, nei pressi della cittadina di Kharp. Mi hanno portato qui dopo venti giorni di viaggio lungo una strana rotta: Vladimir - Mosca - Chelyabinsk - Ekaterinburg - Kirov - Vorkuta - Kharp. Ho saputo che mi davate per disperso, e che alcuni di voi si sono anche preoccupati. A dire il vero temevo anch’io, che nessuno sarebbe riuscito a trovarmi per un po’». 

MI MANCA TUTTO

La chiosa del prigioniero con tutta le speranza sotto ghiaccio è straziante e commossa al tempo stesso: «In russo non si dice “mi mancate terribilmente”, è scorretto. Dovrei dire: «Mi mancate molto». Ma per quello che provo, «mi manca terribilmente la mia famiglia», è più preciso. Mi manca Yulia, mi mancano i miei figli Dasha e Zahar, mi mancano i miei genitori, mi mancano i miei amici, mi mancano i colleghi. Mi manca il mio lavoro. Mi mancano le battute che si fanno durante il cenone. Mi manca perfino litigare con quelli che mandano gli stessi, stupidi, messaggi di auguri su Whatsapp a tutti. Non mi fraintendete, non mi sento abbandonato, o isolato. Sono di ottimo umore, molto natalizio. Ma mi mancate tutti. Terribilmente». E è quello il momentum: l’attimo preciso in cui muore l’uomo e nasce la leggenda…

 

 

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