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Biennale di Venezia: 24mila artisti chiedono l’esclusione di Israele
venerdì 3 ottobre 2025

Biennale di Venezia: 24mila artisti chiedono l’esclusione di Israele

Biennale di Venezia: 24mila artisti chiedono l’esclusione di Israele
Nicoletta Orlandi PostiNicoletta Orlandi Posti è nata e cresciuta alla Garbatella, popolare quartiere di Roma, ma vive a Milano. Giornalista professionista e storica dell'arte, cura su LiberoTv la rubrica "ART'è". Nel 2011 ha scritto "Il sacco di Roma. Tutta la verità sulla giunta Alemanno" (editori Riuniti); nel 2013 con i tipi dello stesso editore è uscito "Il sangue politico": la prefazione è di Erri De Luca. Il suo romanzo "A come amore", pubblicato a puntate su Facebook, ha dato il via nel 2008 all'era dell'e-feuilleton. A febbraio del 2015 è uscito il suo primo ebook "Expo2051". Nel 2016 Castelvecchi ha pubblicato il suo libro "Le bombe di Roma"; nel 2019 è uscita la seconda edizione. Sta lavorando a una trilogia dedicata ai misandricidi dal titolo "Ragazze di Buttiga". Il titolo del blog è un omaggio al saggio del prof Vincenzo Trione.
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Dopo due anni di bombardamenti, carestia forzata e assedio nella Striscia di Gaza è arrivata alla Biennale di Venezia una lettera con la quale 24mila tra artisti, curatori e operatori culturali a livello internazionale, chiedono "l'esclusione immediata e totale dello Stato di Israele dalla 61ª Esposizione Internazionale d’Arte del 2026” accusando gli organizzatori di aver concesso un nuovo spazio espositivo a Israele, nonostante le gravi accuse internazionali legate al conflitto in corso a Gaza e in Cisgiordania. “Non si può offrire una piattaforma culturale a uno Stato accusato di genocidio", puntualizza il gruppo internazionale Art Not Genocide Alliance (Anga) che firma l’appello datato 2 ottobre che si conclude con un ultimatum: entro il 15 ottobre 2025 la Biennale dovrà rispondere alla richiesta di esclusione. In caso contrario, gli artivisti annunciano l'avvio di una campagna globale di boicottaggio in vista dell'apertura della 61esima edizione, prevista per il 9 maggio 2026, con "massime conseguenze reputazionali ed economiche".

Il motivo è esplicito: non si può concedere una vetrina culturale a uno Stato sotto accusa per genocidio. Gli artivisti di Anga citano i dati Onu: più di 65.000 morti nella Striscia di Gaza, oltre settecento giorni di bombardamenti, carestia e assedio. E richiamano il rapporto della Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sui Territori Palestinesi Occupati, diffuso il 16 settembre 2025, che parla apertamente di “campagna genocida” condotta da Israele, attribuendo responsabilità dirette alla leadership politica e militare. Navi Pillay, presidente della commissione, è stata lapidaria: l’inazione internazionale equivale a complicità.

Il cuore della polemica è il padiglione israeliano. Nel 2024 l’artista Ruth Patir aveva scelto di non aprirlo in segno di protesta, mentre all’esterno Anga distribuiva volantini. Per il 2026, Israele ha pubblicato una call rivolta a curatori e artisti, annunciando che la sede sarà spostata all’Arsenale per via dei lavori ai Giardini. Ma Anga contesta questa versione: non sono ristrutturazioni, dicono, bensì la pressione del boicottaggio ad aver reso inagibile lo spazio storico. La Biennale, dal canto suo, ricorda che possono partecipare tutti i Paesi ufficialmente riconosciuti dall’Italia che ne facciano richiesta. E sottolinea che non sarebbe la prima volta che un padiglione viene trasferito temporaneamente fuori dai Giardini: Canada, Repubblica Ceca e Svezia, ad esempio.

Può l’arte restare neutrale di fronte a un’accusa di genocidio? Per gli artivisti di Anga la risposta è no. Offrire visibilità equivale a legittimare. E a Venezia, luogo simbolo di una cultura che si fa vetrina globale, questa frattura rischia di diventare il terreno di una battaglia che riguarda non solo Israele, ma il rapporto stesso tra arte e politica nel XXI secolo.