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Totò, il sosia, il guappo, 'a livella: perché la Napoli chic non lo amava

Giovanni Ruggiero
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Totò a Napoli ha sempre avuto vita dura. Per un motivo semplice che a 50 anni dalla sua morte puntuale ritorna: Antonio de Curtis piaceva alla gente della Pignasecca, dei Quartieri Spagnoli, del rione Sanità, dove era nato nel 1898, la gente che in lui vedeva, capendola, la maschera che discendeva da Pulcinella, vedeva la macchietta e si inebriava delle movenze e della battuta veloce. Niente di complesso, sofisticato: guizzi spontanei, giochi di parole, invenzioni grazie a cui la variegata umanità che affolla la città dolente reagiva ai potenti ridendo e facendo propri gli sghignazzi, i neologismi («pinzellacchere», «bazzecole», «quisquilie»), le prese per i fondelli dell' italiano aulico e spesso burocratico, l' italiano con la "r" moscia e la prosopopea altisonante. Non piaceva, però, Totò alla Napoli presunta colta, la borghesia saccente che storce, tuttora, il naso e che fa opinione, scrive sui giornali e per il cinema, manda volumi in libreria. Una Napoli ingrata che non manca mai di dire la sua, che zittisce e s' impone, noi siamo noi e voi siete straccioni. Napoli borbonica e immortale, feste, farina e forca, che in lui vedeva ciò che ha sempre disdegnato: il popolo e i suoi eroi, la voce dei vicoli, la macchietta disarticolata e colpita a morte ma non doma, saggia e paziente, che poi null' altro è che il marottiano oro di Napoli. Strano destino per il principe del sorriso: napoletanissimo ancor più dei De Filippo e come solo Massimo Troisi saprà esserlo, è stato sempre meglio raccontato e più capito al Nord che al Sud. Ma il cuore vero di Napoli, quello che non oltrepassa i confini dei vicoli e dei bassi, miseria tanta e nobiltà a grappoli, batteva e batte per lui. Raccontano che al cimitero c' è gente che a stento visita le tombe dei genitori, sostando per ore dinanzi a quella di Totò, deponendo fiori e saluti, suppliche e poesie. Raccontano che in città c' è un sosia di Totò, copia spiccicata con tanto di bombetta e pantaloni a zompafossi. Il sosia ogni tanto si fa vedere nel rione Sanità. Passeggia muovendosi a scatti, la testa snodata sul collo, la voce che si leva: attenzione, battaglione, miett' 'a mano rinto 'o cazone e per non cadere nella pornografia noi ci fermiamo qui senza citare «'o maccarone». Dalle finestre piovono fiori e sorrisi. Gli applausi no, quelli salgono al cielo, fino al paradiso degli artisti dove Totò troneggia ridendosela della sua stessa livella: siamo uomini o caporali? A volte principi, addirittura di Bisanzio, e come tali dimoriamo. Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio: nobiltà partenopea che ancora guardi dall' alto, beccati questa, vera o fasulla che sia. Raccontano mille cose su Totò, vere, verosimili, strampalate, irreali e affascinanti, come in tutte le favole belle. Raccontano che era a Roma, il 13 aprile di 50 anni fa. «Cafiè», disse al suo fidato autista Carlo Cafiero, «portami a casa, mi sento 'na schifezza». Via Monte Parioli 4: il medico arrivò e non diagnosticò nulla: «Principe state 'na bellezza». No, stava proprio 'na schifezza: il giorno dopo, 14 aprile, fu Franca Faldini, sua compagna da 14 anni, a trovarlo con la testa accasciata sul tavolo. Infarto. Il primo di altri due. Peggio che 'na schifezza. Raccontano che prima di andarsene, triste e ormai cieco, avrebbe detto: «Lasciatemi in pace, fatemi morire». O forse: «Sto morendo, portatemi a Napoli». Oppure: «Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano». O disse tutte e tre le cose, malinconico, come solo certi comici stanchi e delusi sanno esserlo. Morì alle 3 di quella notte, sabato 15 aprile. A Napoli arrivò solo la sua salma per le esequie solenni nella Chiesa del Carmine, dopo i funerali romani. Fu un bagno di folla. Vennero da tutta la città per salutare il divo del popolo. Si aprirono i quartieri e riversarono gente in piazza. C' era pure il sosia, che immaginiamo non fosse quello di oggi, anche perché il naso (ma che sosia sei?) guardava dalla parte sbagliata. Lacrime e svenimenti al Carmine. Ma il vero funerale si svolse due giorni dopo, nel rione Sanità. Lo organizzò "Nase 'e Cane", al secolo Nicola Campoluongo, rispettato guappo di zona. La bara, naturalmente, era vuota. Disse Nase 'e Cane e tutti annuirono: «Chist' è 'u funerale vero. Totò da qui è partito e qui è tornato. E ricordatevi: gli immortali non stanno mai nel tavuto. Stanno in tutte le parti del mondo. E ovunque li applaudono». Il "tavuto" è la bara. Aveva ragione, anche 50 anni dopo. Con tanti saluti alla livella. di Mattias Mainiero

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