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Coronavirus, Filippo Facci mostra le prove: tutte le bugie del governo, ma Conte è ancora premier

Filippo Facci
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È ormai ufficiale che il governo è rimasto inerte per almeno un mese pur sapendo che il Paese stava per essere investito dallo tsunami del coronavirus, non prendendo nessuna decisione apprezzabile e lasciando ignari gli italiani e anche gli operatori sanitari «per non spaventarli»: il che ha impedito che gli stessi si premunissero a vario titolo (anche solo con guanti e mascherine e opportuni distanziamenti) e che comunque non si spaventassero lo stesso, magari prima di lasciarci le penne.

A rivelare la cronologia è lo stesso governo: il direttore della programmazione sanitaria del Ministero della Salute, Andrea Urbani, ha infatti risposto a un’altra ricostruzione di quattro giornalisti del Corriere della Sera (Monica Guerzoni, Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini) i quali avevano reperito tutti i pezzetti del puzzle sui ritardi governativi e li avevano abilmente messi insieme sino a (quasi) completare il quadro, ora definitivamente incorniciato grazie alla precisazione-boomerang di Urbani. Il quale ha raccontato che già all'inizio di gennaio il ministero della Salute sapeva che cosa rischiava di accadere, ma si è limitato a prefigurare un «piano nazionale di emergenza» con quattro scenari possibili, i quali, tuttavia, il ministero ha deciso di non rivelare (li ha «secretati) perché «La linea è stata non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio», ha scritto. Ma è proprio questo «lavorare» a essersi tradotto in un'inerzia decisiva. «Non c’è stato nessun vuoto decisionale. Già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano secretato e quel piano abbiamo seguito», ha scritto ancora Urbani. Il risultato è che moltissimi, oltre a essersi spaventati, sono anche morti. «Sarebbe stato meglio un lockdown immediato», ha ammesso il direttore del Ministero.

QUEL 5 GENNAIO...
Ma ricostruiamo. Il 5 gennaio la Direzione generale della prevenzione sanitaria invia una nota a Regioni e ministeri («Oggetto: polmonite da eziologia sconosciuta - Cina») che riportava i sintomi clinici dei primi 44 casi di Wuhan (febbre, difficoltà respiratorie eccetera). Comicamente e tragicamente, la circolare si concludeva con le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, quella a cui Donald Trump ha tolto i finanziamenti perché accusata di essere troppo filo-cinese: «Si raccomanda di evitare qualsiasi restrizione ai viaggi e al commercio con la Cina».

I primi casi anomali di strane polmoniti, notati e divulgati dall'ormai noto medico Pietro Poidomani nel bergamasco, cominciano il 7 gennaio. Il 22 successivo, in segreto, c'è la prima convocazione di una task force creata al ministero della Salute, che diffonde una circolare che si limita a prescrivere il tampone in caso di polmoniti insolite: questo senza tener conto del luogo di residenza, viaggi o altre patologie del paziente. Il 27 gennaio il Ministero si limita a scrivere di controllare chi arriva in Italia da Wuhan o ha avuto contatti recenti con la Cina; in serata, a una domanda sul coronavirus, il premier Giuseppe Conte risponde col suo celebre «siamo prontissimi».

SEGRETO PER TUTTI
La sera del 30 gennaio i telegiornali annunciano «Virus, colpita l’Italia», «l’allarme dell’Organizzazione mondiale della sanità», mentre sui quotidiani si parlicchia di vaghi provvedimenti che il governo potrebbe prendere, ma senza precisarli: stato d’emergenza? Blocco dei voli con la Cina? Il decreto arriva il giorno seguente, ma è ancora generico: intima di «provvedere tempestivamente a porre in essere tutte le iniziative di carattere straordinario» e però non dice quali. Qual è il piano d'emergenza per uno stato d'emergenza? Che cosa bisogna fare? A non saperlo sono anche gli ospedali. Si capisce solo – con un decreto giuridicamente anomalo e incostituzionale, si appurerà – che vengono bloccati i voli con la Cina, ma non i voli di scalo, ergo non è possibile tracciare il contagio e fare tutti gli opportuni controlli. Il caos è totale. Ognuno spara le cazzate che vuole. Il 2 febbraio, in tv da Fabio Fazio, il virologo Roberto Burioni dice che in Italia il rischio «è pari a zero». Il ministro della Salute invece drammatizza: «Abbiamo fatto scelte prudenziali, il Paese deve essere pronto», e parlerà spesso dell'eretica proposta di «chiudere tutto»: ma Giuseppe Conte non è convinto per niente.

 

 

La confusione e l'inconsapevolezza sono tali, in quei giorni, che i materiali che ci servirebbero li regaliamo. Alla Cina. Il 15 febbraio, da Brindisi, decolla un volo per Pechino organizzato dal ministero degli Esteri: contiene due tonnellate di materiale sanitario. Questo poco tempo prima che mascherine e tute di protezione per i sanitari si rivelino introvabili in Lombardia. Nello stesso giorno, i medici del bergamasco decidono di scrivere all’Azienda di tutela della salute della provincia di Bergamo, ma nessuno risponde loro: «Avremmo potuto salvare qualche vita» dicono ora. Intanto, ripetiamo, il governo già sapeva, ma taceva, quindi nessuno cominciava a procurarsi attrezzature e bombole di ossigeno.

Neanche una settimana dopo, il 21 febbraio, ecco il primo paziente positivo all’ospedale di Codogno, neppure sottoposto al tampone (non subito) perché non veniva dalla Cina. Il generico decreto di emergenza intanto continua a generare bailamme: i medici di tre grandi ospedali di Milano, Como e Bergamo, il 21 febbraio, chiedono di quantificare i posti di terapia intensiva disponibili in Regione, perché temono che «date le attuali condizioni» possano non essere in grado di affrontare l’epidemia, se arriverà. Ma è già arrivata.

NON C'È FRETTA
Il governo intanto non ha fretta. Nove giorni dopo, il direttore generale della Salute, Andrea Urbani, recepisce le richieste della Protezione civile secondo le quali è necessario attivare un coordinamento «per un incremento delle disponibilità di posti letto del 50 per cento nelle unità di terapia intensiva e del 100 per cento in quelle di pneumologia e malattie infettive». L'accordo con la società Siare per la fornitura di ventilatori meccanici (fondamentali per le terapie intensive) verrà comodamente siglato sei giorni dopo.

Conte intanto continua a nicchiare. La curva dei contagi s'impenna, ma lui, per giorni, resiste alle pressioni dei governatori soprattutto della Lombardia e del Veneto (Salvini è nella fase «chiudete tutto») e non vuole cedere al centrodestra. L'idea di Conte è fare un decretino alla volta, piano piano: ha sempre paura che gli italiani non siano pronti e che la sua popolarità possa risentirne. Nell'inerzia governativa, le regioni cominciano comprensibilmente a muoversi da sole (cosa che innervosisce Conte) e il 23 febbraio per esempio ecco l’ordinanza che istituisce misure restrittive per la Lombardia: c'è la firma del presidente Attilio Fontana ma anche di Roberto Speranza.

Ma nello stesso giorno, in Lombardia, ci sono 500 sindaci lombardi che chiedono deroghe per un sacco di attività (mercati, centri commerciali, attività sportive) e la Lombardia cede colpevolmente dopo 72 ore, con una deroga che concede ai bar di restare aperti anche dopo le 18: ed ecco – dal 27 febbraio – la fiera delle cazzate col «Milano non si ferma» e Bergamo nemmeno, gli aperitivi progressisti, tutto il resto. Neanche due giorni dopo, però, Attilio Fontana vede le stime della curva epidemica e capisce che l'intero sistema ospedaliero, di quel passo, rischia di andare in default. Intanto l’Emilia Romagna chiede di tenere aperti cinema e teatri, e il Veneto vuole un deroga sulle terme. E’ surreale. E lo è anche domenica 8 marzo – festa e sole - che secondo l'opinione comune ci è costata carissima in termini di contagi.

Il giorno dopo, a buoi scappati, Conte chiude le stalle e annuncia che l’Italia diventerà zona rossa: questo 38 giorni dopo l'emergenza sanitaria proclamata il 31 gennaio. Non sono gli italiani, a essere spaventati: è spaventato lui. Giuseppe Conte è ancora presidente del consiglio.

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