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Alfonso Bonafede e il no a Di Matteo: "Quali pressioni ha ricevuto il ministro e perché non può ammetterle"

Renato Farina
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Chi ha ragione nella contesa a mazzate tra il ministro della Giustizia e il magistrato eletto nel Csm? Chi dei due deve perciò andarsene?
La risposta più comoda e ovvia sarebbe: tutt' e due, ne hanno combinate troppe, prima, durante e dopo. Hanno dato vita a baruffe chiozzotte da comari meridionali, con graffi sul naso e ciocche di capelli nel water, e proprio nel tempio dell equilibrio dove i piatti della bilancia dovrebbero essere immuni dagli sputazzi di chi dovrebbe reggerla. A che serve dar ragione all' uno o all' altro. Tanto è sicuro: resisteranno indomiti ai loro posti, si accomoderanno, del resto è già intervenuto come paciere e sarà sicuramente bravissimo anche come crocerossina Marco Travaglio, che porterà brodino di piccione e ne sorveglierà la convalescenza.
Ci tocca prima un po' di cronaca dell' attualità spicciola.

 

 

 

Ribadendo il concetto sopra esposto, che cioè rispetto all' enormità del disastro giudiziario trattasi di una pinzillacchera. La contesa fra un tremebondo Alfonso Bonafede (ministro della Giustizia) e un prepotente Nino Di Matteo (pm ora al Csm) verte su due opposte versioni di un unico fatto. Nel 2018, l' allora pubblico ministero Di Matteo, famoso ideologo della trattativa Stato-Cosa nostra, avrebbe ricevuto dal neo-ministro Bonafede l' offerta di dirigere il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria, il luogo da cui un magistrato dirige le carceri, con uno stipendio sontuoso, circa il triplo di quello di un deputato). Di Matteo era pronto per dire di sì, è andato a trovarlo per comunicarlo di persona, e quello gli ha contro offerto un incarico da portaborse ministeriale, direttore degli affari generali. Sarebbe sì il posto esatto occupato da Giovanni Falcone, come sostenuto da Bonafede, peccato che nel frattempo la legge avesse ridotto alla metà della metà il rango di quel posto.

Un no scontato - Logico che Di Matteo dicesse no, e ha giurato di vendicarsi, con il solito animo sereno delle toghe. Passano neanche due anni, e Bonafede sloggia il capo del Dap, Francesco Basentini, ritenuto poco adatto, avendo dato l' ok alla liberazione di trecento e passa boss per ragioni di salute legate al Covid. Non interveniamo nel merito. Ma un fatto simile è la negazione del dogma più-galera-per-tutti che sta alla base della politica giudiziaria dei grillini. Questo sentimento del M5S ha sospinto a furor di popolo manettaro negli uffici di via Arenula l' unico avvocato lieto del gabbio per i suoi clienti, e sollevato al rango di divinità in toga Nino Di Matteo, famoso per considerare i politici per lo più venduti alla mafia.
Di Matteo ha rivelato di essere stato scartato per «l' interferenza di boss mafiosi», che avrebbero minacciato vendette nel caso fosse stato nominato lui, come risulterebbe da intercettazioni dove il boss Graviano dice: «Se nominano Di Matteo è la fine», pubblicate dalla Pravda quotidiana, cioè il Fatto. Bonafede si è difeso, ovvio. Ha prima dichiarato «infami» le accuse. Ieri in Parlamento ha negato «interferenze». Non può dire di aver ceduto ai boss, e neppure appare francamente verosimile.
Ma ha il dovere di essere sincero, confessando come in quei giorni ha funzionato il mercato politico. Chi ha scartato la vacca Di Matteo? Per un posto così delicato, uno schierato così radicalmente è possibilissimo abbia suscitato contestazioni. Per la Lega accettarlo senza scalciare, sarebbe stato come mettere un dito nell' occhio a Berlusconi, viste le accuse rivolte dal pm a Dell' Utri, e sullo sfondo allo stesso Cavaliere. Il Quirinale davanti a un candidato che ha portato in tribunale fior di carabinieri considerati eroi, avrà fatto presente che presentare un candidato unico e volerlo a tutti i costi per un posto delicatissimo, sarebbe stato un brutto precedente, poco dialogico. Oltretutto nel corso di questo processo, Di Matteo aveva insieme con Ingroia trattato il predecessore di Mattarella, Giorgio Napolitano, come un complice reticente. È andata così? Che male c' è? Il nome di Dio non è mica Nino, almeno per ora.

Normali compromessi - Cose normali, quante promesse abbiamo tutti ricevuto, poi andate in discarica e nel silenzio. Il fatto è che Bonafede non può dire la verità, perché com' è noto negli statuti di costoro chi tratta è un Giuda, e se dicesse di questo o quel niet e di aver ceduto, sarebbe impiccato fuori dalla Casaleggio e associati. Eppure si fa, la politica è compromesso, non esiste nessuno che abbia un potere da autocrate, e per fortuna. Ora Di Matteo, dopo che il suo contendente vittorioso ha spedito fuori di galera dei mafiosi, gongola e morde, Bonafede sta cercando di rimediare, non per giustizia, ma per salvarsi la faccia. E li vuole tutti dentro, fossero moribondi, o anche morti, purché di tre giorni soltanto, perché poi li resusciterebbe senz' altro per consegnarli al rigore il divino Di Matteo.
Ben altro che per la bugia diplomatica detta a Di Matteo, e per la reticenza con il naso lungo detta oggi alla Camera, andrebbe rimandato nel suo studiolo da paglietta di provincia. Questo ministro da anni sta perpetrando una tortura da maniaco contro lo Stato di diritto. Ha abrogato la prescrizione, ha infilato il trojan nelle vite di sessanta milioni di italiani, dando da gestire miliardi di dati a tecnici perché poi siano filtrate dai pm.
Rifiuta l' indulto, e poi non si accorge di circolari che scremano per la libertà il peggio (a torto o nel giusto non sappiamo: di sicuro lui non se n' è accorto). Non riusciremo a cacciarlo. Uno così incapace lascia però aperta la speranza che mandi con la sua insipienza a gambe all' aria oltre che lo Stato di diritto anche quello di rovescio.

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