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Vittorio Feltri, Ciriaco De Mita e il confronto impietoso con i politici di oggi: "Almeno lui giocava a carte"

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Pubblichiamo un articolo del 1987 di Vittorio Feltri che racconta la campagna elettorale di De Mita. 

Questa campagna elettorale è come certe signore: vista da dietro è meglio. Niente di speciale, ma neanche da buttare. Prendi De Mita, in tv appare come imbalsamato; dal vero sembra vivo. So che è straordinario e non ci crederete: ho sorpreso Ciriaco ridere. È accaduto sull'aereo che Calisto Tanzi (Parmalat) gli ha messo a disposizione - per amicizia personale e identica fede politica - in queste settimane di migrazioni propagandistiche. A bordo siamo in cinque, rientriamo a Roma dopo i comizi di Milano e Pavia. Il principe democristiano siede di fronte a Elveno Pastorelli, quello della Protezione civile. Si conoscono e frequentano da 44 anni, erano compagni di banco al liceo. Non appena le cinture di sicurezza sono allacciate, il capo abbassa il tavolino e si strofina i palmi: «Dai, attacca».

Spunta un mazzo di «napoletane» e si inizia la sfida, una specie di «tressette» da disputarsi in due. Mischia De Mita con una rapidità che rivela dimestichezza con le carte; deve averla acquistata da ragazzo, come ogni provinciale che si rispetti, tirando l'alba al mediocre tappeto verde d'un bar sport a Nusco in uno scenario alla Piero Chiara. L'atmosfera di quei tempi paesani si ricrea immediatamente, basta una contestazione sul conteggio dei punti, «Otto per me», sentenzia il segretario. «Quattro», replica gelido l'avversario. «Sempre debole in aritmetica», osserva il primo. «E tu sei un buffone». «Allora bisogna che ti dia del cretino. È preferibile che lo faccia io, almeno per uno scherzo. Se invece insisti dimostri che cretino lo sei sul serio». Spade e bastoni volano. Ciriaco piglia il rivale per la cravatta: «Con te non riesco a perdere nemmeno se mi impegno». L'altro: «Molla la preziosa stoffa, mi costa 12 mila lire». Le mani dei giocatori si aggrovigliano. «Piantala». «Piantala tu». Gira qualche schiaffetto. Ha tutta l'aria di un bisticcio in piena regola. Invece sfocia in una risata. La partita riprende. De Mita raccatta «carichi» in quantità vergognosa. «A Cirì, fai schifo». «Sei carino tu». «Ci hai un c un sedere così». «Zitto, non lo dire che porta iella per l'altra partita, quella che mi preme». E rivolgendosi a me: «Questo però non lo scriva, sennò passerei per superstizioso e sarebbe seccante». Pastorelli non demorde e colleziona sconfitte: «Se questo non è c». «Abilità giovanotto. Quanti punti?». «Sei». «I miei sono dieci». «Come, dieci? Cirì, sei inattendibile». «Questa l'ho già sentita».

Sensazionale: De Mita ride ancora, abbottonando la giacca di grisaglia che è in tinta con i rari capelli rimasti sul collo. È mezzanotte e mezzo, l'aereo atterra a Ciampino, il lungo dì del «nemico» di Craxi è finito in sorprendente allegria. Ma che giornataccia. Era cominciata con una raffica di telefonate: «È vero, onorevole, che intende dimettersi dopo il 14 giugno, a prescindere dai risultati?». Il quesito sorgeva da una dichiarazione del segretario al «Corriere» durante la «Graticola»; una frase gettata lì in un discorso fluviale sulle faccende dell'attualità, ma che nella staticità apparente del panorama romano ha fatto trasalire i cronisti. «Non nego di averla pronunciata - commenta l'interessato -, si tratta di interpretarla. Volevo esprimere un concetto elementare: e cioè che nella Dc non esistono monarchie, le poltrone non si occupano in eterno e anche la mia è in palio. In altri partiti non è così. O sbaglio? Ma sarei autolesionista e nuocerei al mio se annunciassi alla vigilia del voto che sono in procinto di andarmene. Una follia che non mi si può attribuire. Anticipo, però, che per la successione prima o poi nascerà qualcosa. E il nuovo venuto non sarà tollerante quanto me nel curare i rapporti con gli alleati».

LA RICHIESTA
Chiarito l'equivoco delle dimissioni, che imminenti non sono, l'avellinese conferma che sarà a Milano alle 16.30, due ore prima dell'appuntamento con la folla sotto la Madonnina. Figuriamoci all'Hotel Duomo, dov' è atteso: gli attivisti dello scudo crociato non stanno più nella pelle, si agitano nei preparativi, vagano come studenti in ansia per gli esami. C'è anche Zamberletti che affronta il portiere: «Non è ancora qui? Ma che diamine, sono quasi le cinque». Andirivieni di portaborse. «Un pacchetto di Marlboro», grida un tale in giacca blu e pantaloni di tela. «Per il ministro», aggiunge con tono furbesco per legittimare la perentorietà della richiesta. «Le toilettes, dove sono le toilettes?», reclama un altro. «In fondo a sinistra», lo rassicura un impiegato dell'albergo. Poi, quello che si preoccupava dei cessi corre fuori: «Porca miseria, piove». In piazza, davanti alla cattedrale, Del Pennino si offre in sacrificio sotto la pioggia e raccomanda ai cittadini di percorrere la retta via repubblicana, «la sola che consenta buona andatura» senza rischi di sbandamento. «Ma questi quando la smettono? - si interrogano i funzionari dc -. Sono le 6.30, fra poco tocca a noi e sul palco domina l'edera». Il problema del cambio di scenografia semina il panico tra gli organizzatori democristiani: «Se capita lui e al posto del nostro cartellone trova quello di Spadolini stiamo freschi».

Il pericolo è schivato perché De Mita, causa il traffico, arriva in ritardo. Breve introduzione di Tobacci, del vertice lombardo, e il microfono al numero uno nazionale. Il rito imporrebbe un applauso, perché la gente non l'adempie? Difficile battere le mani se in una si stringe l'ombrello, eppure i presenti (3 o 4 mila) non appena si accorgono che la canonica ovazione sarebbe gradita, si ingegnano: chi serrando il parapioggia, chi infilandosi in manico sotto le ascelle, chi lasciandolo cadere. Questa sì è devozione. Don Ciriaco si carica e colpisce i repubblicani, «che sono attenti alla questione morale e poi hanno un segretario che fa gli equilibrismi per sedere contemporaneamente fra la storia, la cultura e Palazzo Chigi». Gli spettatori non resistono: pur di applaudire, si risottopongono alle ardue esercitazioni con l'ombrello, destreggiandosi quanto gli sbandieratori estensi. E quando dal pulpito le frecciate agli antagonisti si susseguono al ritmo di una al minuto, il popolo rinuncia definitivamente al riparo per la soddisfazione di salutarle con maggior prontezza e calore. Al termine, bagnati ma esultanti, quasi tutti si stringono attorno al leader-bandiera.

L'ambizione è di toccarlo, almeno sfiorarlo, dargli un'occhiata da vicino. Fra il pubblico sono stati notati parecchi concorrenti del biancofiore e amici del giaguaro; qualcuno riferisce che, mimetizzato con occhiali scuri, assisteva anche Minoli, il conduttore di «Mixer» in una puntata del quale Craxi mise in dubbio la staffetta galeotta. De Mita scrolla le spalle. «I contorni non sono il suo genere - mi sussurra uno del seguito -, ma sono il mio. Desidero raccontarle qualche episodio per il bene di Ciriaco. La gente ha di lui un'immagine sbagliata, non è un bigottone né un arido, anzi. Sa perché nel 1958 non fu eletto deputato? In piena campagna, si innamorò di Agnese. Piantò i comizi e le corse appresso. Addio, collegio. Fatte le somme delle preferenze, si accorse che l'ingresso alla camera gli era precluso per 800 suffragi. Roba da spaccarsi la testa. Se fosse stato più smanioso per la carriera e meno per quella là, sarebbe diventato onorevole con una legislatura d'anticipo. È un bel tipo, il potere gli piace fino a un certo punto. Dimenticavo: quella volta si consolò intensificando le frequentazioni della ragazza. Ma poi ne ha sposata un'altra».

Dicono che sia la guida più permalosa che abbia avuto la Dc. «Alcuni anni orsono, Fanfani, in vena di parabole, ne espresse una pesantuccia sulla sua linea: «Il vino Nusco è troppo forte, va annacquato». A Natale De Mita gli inviò in gentile omaggio una damigiana di oligominerale». Come mai in questa congiuntura ce l'ha con il Pri? «Perché Giovannone ha scocciato». A proposito è stata riesumata una battuta che gli sta meglio della camicia bianca: «Per Spadolini contano solo le parole, il resto sono chiacchere». La corte democristiana è pronta per trasferirsi a Pavia. Salgo in macchina con De Mita, un'Alfona marrone preceduta dai carabinieri. Un collega e io dietro; lui è davanti e per conversare è costretto a voltarsi. Onorevole, Altissimo e Pannella affermano che la Dc e il Pci sono due ubriachi che si sostengono a vicenda. «A parte che gli ubriachi, semmai, sono più di due, è una teoria illogica. Da quando in qua si aiuta un avversario per batterlo meglio?». Anche i socialisti però, come radicali e liberali, temono che lei miri a tagliarli fuori ripristinando il compromesso storico. «Ogni giorno c'è qualcuno che si affanna a commentare intenzioni che non ho mai avuto. È faticoso e inutile e comporta il rischio di dire il falso».

 

 

LE RISATE
C'è un precedente: Zaccagnini promise nel 1978 che coi comunisti non si sarebbe alleato, poi li spinse nella maggioranza. «La cattiva memoria è un'attenuante, non una scusante. Furono i socialisti, gli stessi di oggi, a porre come condizione per aderire alla coalizione, la compagnia di Berlinguer. La Dc era sola. O accettare o indire nuove elezioni che, indubbiamente, l'avrebbero agevolata. Fu per senso di responsabilità che scelse la prima soluzione. Ora le cose sono un po' diverse». Andando su e giù per la penisola, che impressione ha tratto: guadagnerete o perderete? «Col fiuto si valutano gli umori della gente, e questa non c'è contraria; impossibile invece fare calcoli previsionali». Che cosa pensa dei sondaggi? «Turbano e basta, perché lasciano ampi margini all'incertezza. Consideri che si svolgono per telefono e il 25 per cento degli italiani non è abbonato alla Sip». È lecita o no la spinta che vi hanno detto i vescovi? «Curioso: quando la Chiesa, in passato, ci ha criticati nessuno si è sognato di accusarla di ingerenza. È coerente?». Quelli di Comunione e Liberazione con chi stanno? «Con noi, e non mi pare si trovino male».

Con chi farete il governo? lo dice una buona volta. «Non sono io a nascondere la volontà, ma qualcun altro. Governeremo, se avremo i consensi, con chi riterrà opportuno per il Paese collaborare con noi sul programma. Questo è lo scopo, non la presidenza». Ma allora la staffetta che senso aveva? « Chi non ha capito è perché non è stato messo in condizione di ragionare. Sono stufo di ripetere i medesimi concetti: le alleanze si rompono quando svaniscono obiettivi comuni, e si ricompattano quando se ne ricreano di nuovi». A tavola, al ristorante «Cassinino», vicino alla Certosa, la parola d'ordine è: «Bando alla politica, si mangia»; e si ode un commento: «Giusto, mica come i soliti noti che mangiano esclusivamente con la politica». Sorrisetti e ammiccamenti. Si mandano giù gamberetti e scaloppine agli asparagi: Ciriaco si informa su Gianni Rivera: «Come sta andando? Bene? Mi fa piacere. È intelligente, gli affideremo lo sport democristiano. Mandava in gol Prati, figuriamoci se non farà segnare noi». È già ora di alzarsi. A Pavia, piazza della Vittoria è piena come il San Paolo in zona scudetto. De Mita è stanco, ma farà centro. Mentre sale sul podio gli domando: scusi onorevole la sfacciataggine, ma perché lei è antipatico? Non si arrabbia e spiega: «Forse perché penso prima di parlare e faccio quel che ho detto. Non mi rassegno all'idea che per avere successo audiovisivo sia necessario parlare prima di pensare e fare il contrario di quel che s' è promesso. Rido poco? È un rimprovero che mi fa spesso anche mia figlia. Ma io di ameno non vedo granché».

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