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Vittorio Feltri festeggia i vent'anni di Libero: "Popolari e fortunati, stiamo sul gozzo"

Vittorio Feltri
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Libero compie due decenni. Lo fondai io perché desideravo complicarmi la vita quando avevo alle spalle già una lunga esperienza in questo mio mestiere assurdo ma affascinante e non scevro di emozioni. Fin da bambino desideravo scrivere, però dovetti aspettare quasi fino al compimento dei 19 anni per cominciare a farlo a livello pseudoprofessionale. Il mio primo articolo uscì su L'Eco di Bergamo, quotidiano cattolico della mia città. Era dedicato a Ermanno Olmi, regista di alta qualità, anche lui orobico. Non smisi più di vergare pezzi su qualsiasi argomento, cinema, sport, cronaca.

Ogni volta che ne pubblicavo uno lo rileggevo con timore di trovarvi un errore. A 26 anni fui assunto alla Notte, foglio pomeridiano diretto da Nino Nutrizio, un fenomeno. Nel 1974 passai al Corriere di Informazione e nel 1977 al Corriere della Sera, il tempio del giornalismo: la Repubblica di Scalfari era appena nata. Feci il caposervizio del settore politico, poi l'inviato speciale. Un periodo difficile e meraviglioso. Difatti i cronisti italiani si dividono in due categorie: quelli che lavorano al Corriere e quelli che vorrebbero lavorarci. Sorvolo su tante mie vicende. Nel 1989 vengo nominato direttore di un grande settimanale, l'Europeo. Dato che già allora stavo sul gozzo ai colleghi, la redazione per opporsi a me organizzò lo sciopero più lungo della storia dopo quello dei minatori inglesi: due mesi. Resistetti. Vinsi io. Nel giro di un biennio le copie del magazine salirono da una media di 79 mila a oltre 130 mila.

Dopo simile dimostrazione, mi dimisi per andare a salvare l'Indipendente in punto di morte. Il compenso era adeguato. Le vendite avrebbero richiesto un becchino, 17 mila, non un direttore. Nel giro di un biennio, sfruttando Mani pulite, le portai a 120 mila. Me ne andai un'altra volta per sostituire Montanelli che aveva abbandonato il Giornale in polemica con Berlusconi. Non fu una battaglia bensì una passeggiata. Indro aveva nel frattempo fondato la Voce, che dodici mesi dopo tirò le cuoia per mancanza di ossigeno e di lettori. Il mio Giornale, partito da 115 mila copie raggiunse le 250 mila.

Ovvio. Io pendevo a destra, la Voce pendeva a sinistra e perse il confronto con me. Come sempre mi succede quando le cose vanno bene, mi ruppi le scatole del successo e rassegnai le dimissioni. Non gratis.  Andai a dirigere la salma del Borghese e la mantenni in rianimazione per un po', quindi accettai la direzione del cosiddetto Qn (quotidiano nazionale ovvero Giorno, Carlino e Nazione). Resistetti un anno a Bologna, mentre mi frullava in testa l'idea di fondare un nuovo quotidiano completamente sganciato da editori pieni di esigenze e da legacci politici. Non era una operazione semplice da realizzarsi, tuttavia valeva la pena di insistere. Avrò bussato invano a cento porte, finché una si aprì. Era quella di un imprenditore torinese, Massano. Mi ascoltò, approvò il mio progetto e iniziammo a lavorare. Non sprecammo troppo tempo nei preliminari.

Trovammo una sede in via Merano, sotto un ponte della ferrovia, naturalmente a pigione bassa, fecemmo un progetto grafico, assumemmo una ventina di sfigati alle prime armi e alcuni fuoriclasse delusi, e cominciammo con i cosiddetti numeri zero. Il primo Libero ce l'ho qui davanti agli occhi: niente male. Si poteva far di peggio. Andammo in edicola un po' raffazzonati eppure con qualche pretesa. Accadde il miracolo: 70 mila copie. Che calarono a 45 mila nei giorni successivi. Bastavano per sopravvivere. Ci servivano soldi per anticipare le spese, ma non li avevamo. Imbarcammo nell'iniziativa un imprenditore di Rimini, Patacconi, nome poco rassicurante. E andammo faticosamente avanti. Registrammo anche una certa crescita, finché accadde un disastro: Patacconi con la sua Mercedes finì nel porto canale della sua città e perse la vita. Non avevamo più alcuna alimentazione. Pagai di tasca mia alcune fatture per le forniture vitali, poi un dì si appalesò nel mio ufficio Zamparini, eccellente presidente del Palermo calcio, il quale mi offrì dieci miliardi di lire. Addirittura. Tergiversai perché nelle more avevo intessuto un rapporto con gli Angelucci che non volevo deludere giacché si trattava di gente affidabile.

 

 

 

 

Con i padroni delle cliniche romane, persone squisite, non ebbi alcun problema nel trattare la cessione di Libero, la cui sopravvivenza mi stava più a cuore della mia. Firmammo un signor contratto e da quel momento in poi fummo felici e contenti. La struttura editoriale fu perfezionata e produsse risultati brillanti. Che divennero brillantissimi con il trascorrere di alcuni anni. Le vendite schizzarono in alto anche per merito del direttore generale, Gianni Di Giore, esperto soprattutto di distribuzione. Nel 2006 le copie superarono le 100 mila e fummo in grado di acquistare una splendida sede in viale Majno a Milano, in pieno centro.

Libero ha avuto un clamoroso successo con il contributo decisivo di Alessandro Sallusti; la squadra redazionale è tra le più preparate e funziona automaticamente. Io sono vecchio e rincoglionito, ciononostante sto sulle palle all'Ordine dei giornalisti poiché godo di un certo benessere, di assoluta libertà e di notevole popolarità. Tutta roba piccola, ma sufficiente a innervosire colleghi i cui nomi si giovano di una risonanza rionale. Compiere venti anni in salute alla faccia della crisi dei giornali fa piacere. Un piacere che vogliamo condividere con voi cari e affezionati lettori. Senza di voi non saremmo nessuno. In conclusione, riconosco che la fortuna ci ha assistiti, se non altro nella scelta degli uomini guida. Abbiamo un amministratore, Daniele Cavaglià, capace di cavar soldi anche dai pidocchi e di far quadrare perfino i conti esagonali. Non finirò mai di ringraziarlo, sebbene abbia un grave difetto: è tifoso del Toro. Così come una medaglia merita Stefano Cecchetti, direttore generale, il terminale di ogni grana, pure lui con un difetto: non gli importa nulla del calcio. Alla famiglia Angelucci che si è addossata il fardello di Libero un abbraccio carico di gratitudine

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