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Renato Farina. il villipendio al Capo dello Stato è un reato anacronistico: "Non deve esistere"

Monito

Renato Farina
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Il Gup di Roma, che non è il vezzeggiativo del famoso gufo dei giardini vaticani ma il locale Giudice unico per indagini preliminari, ha stabilito che il 16 dicembre si celebrerà nella Capitale un processo di quelli antichi, per un reato stretto parente della "lesa maestà". L'imputato onorevole Carlo Sibilia, attuale sottosegretario all'Interno, grillino, deve rispondere davanti al Giudice monocratico di "vilipendio del Presidente della Repubblica". Il dispositivo recita: «Chiunque offende l'onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni». Vi stupite esista ancora? Eccome se c'è. L'art. 278 del codice penale è una vecchia ghigliottina, ma di tanto in tanto viene oliata. Non è tanto l'entità della pena, ma è l'essenza stessa del reato a essere una reliquia marcia della monarchia assoluta, perché sancisce l'esistenza nella nostra Repubblica di una singolare perversione della legge, per cui viene fatta valere la regola dei "due pesi e due misure". Quasi non esistesse l'art. 3 della Costituzione che prevede uguaglianza di dignità di qualsiasi cittadino. L'ultimo caso notevole, in cui abbiamo sentito cigolare il carretto che trascinava alla gogna il condannato, ha riguardato Umberto Bossi. Nel 2011 aveva dato del "terrone" a Giorgio Napolitano contemporaneamente mostrando le corna a una festa della Lega, ad Albino, nella Bergamasca. La Cassazione gli ha dato un anno e 15 giorni di carcere senza condizionale nel 2018. (Un anno per le corna a e 15 giorni per terrone, o viceversa?). Sarebbe finito in carcere, o comunque assegnato ai servizi sociali, ma Sergio Mattarella gli ha dato la grazia. Pura saggezza. Se ci fosse sul serio l'obbligatorietà dell'azione penale altro che maxi processo contro chi sopra il Po ha dato del terrone a un Capo dello Stato, chiunque esso fosse. 

 

 

E così oggi tocca a Sibilia. Quando la sorte toccò prima a Storace (sei mesi) e poi a Bossi, da sinistra e dai Cinque Stelle nessuno si dissociò pubblicamente da questa misura vessatoria. Che sia una gigantesca bischerata non siamo noi a dirlo ora, ma è stata la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu)sin dal 2013. Monsieur Hervé Eon si era rivolto alla suprema istanza europea ritenendo leso il suo diritto di espressione sancito all'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti umani. Perché? Mr Eon davanti al solenne corteo presidenziale con il benedicente Nicholas Sarkozy aveva alzato un cartello rispetto a cui terrone è un bacione: «Casse toi pov' con!» (nostra traduzione: «Incùlati, povero coglione!»). I giudici francesi lo condannarono per «offense au Président de la République» a 30 (trenta!) euro di multa. Meno di un divieto di sosta. La Cedu ha condannato la Francia! Non può esistere un reato così! Il Parlamento italiano che fa? Ha raccolto una vera catasta di proposte e disegni di legge atti a cancellare dal codice penale il "vilipendio". Invano. Per ragioni misteriose, qualunque sia la maggioranza di governo, i capigruppo non hanno mai portato al voto questa riformetta da 5 minuti ma che porta con sé qualche secolo di civiltà.

Paura di offendere Sua Maestà? Il buon senso, e il diritto, sostengono che bastano diffamazione, ingiurie e calunnia per regolare le offese al decoro e al prestigio di chiunque, fosse pure un alto papavero dotato di aureola. Il vilipendio attiene a qualcosa di sacro. Hanno depenalizzato la bestemmia che riguarderebbe l'inquilino di un colle - il Calvario - un tantino più importante del Quirinale, e si ostinano a considerare un tabernacolo la dimora di essere bravi sì ma non proprio perfettissimi. Ed eccoci all'ultimo caso. Sibilia, 28enne deputato del M5S, nell'ottobre del 2014 spedì questo tweet: «Perché secondo voi impediscono agli scagnozzi Riina e Bagarella di "vedere" il boss?». In quei giorni Mattarella era chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-Mafia, e all'udienza in una sala del Quirinale non era stata ammessa la teleconferenza con gli imputati arci-ergastolani. Il pm di Roma ha inteso quella battuta di Sibilia come indicazione che vero "capo dei capi" di Cosa nostra fosse Re Giorgio? Di certo anche il ministro della Giustizia dell'epoca, il Pd Andrea Orlando (come prevede la legge), ha dato via libera all'iter giudiziario ritenendo quel tweet un'allusione gravissima. L'avvocato di Sibilia, Maria Orfini si affanna: «Era una dichiarazione di critica politica e non sulla rispettabilità di Giorgio Napolitano». Questo ci pare arrampicarsi sugli specchi, ma ciascuno si difende come può. La questione è che quel reato non deve esistere. E visto che ormai i giudici sono diventati specialisti dell'interpretazione evolutiva della legge, come nel caso ben più drammatico del suicidio assistito da loro di fatto depenalizzato, lo facciano su una faccenda francamente minore, anzi ridicola.

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