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Giorgia Meloni, le informazioni riservate di Pietro Senaldi: "Le vere ragioni del suo successo in Europa"

Pietro Senaldi
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«Mi chiamo Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana» e da lunedì sera sono il primo politico italiano a presiedere un gruppo europeo e la prima donna a guidare un partito della Ue. Il tormentone che fece scalpore un anno fa, al comizio unificato dei leader di centrodestra a Roma, si è arricchito di una preziosa definizione. E brava Meloni, la nuova leader dell'Ecr, la forza dei conservatori al Parlamento di Strasburgo. Il fatto che Giorgia in Italia sia l'unico capo politico donna già rappresentava uno smacco per la sinistra e tutte quelle femministe progressiste, vestali delle quote rosa e odiatrici del maschio fascista, che vengono sistematicamente sfruttate dai compagni, i quali le agitano come spaventapasseri di fronte all'opinione pubblica e poi le relegano sempre in posti di seconda fila. Ma l'incoronazione di Giorgia a livello europeo è molto di più. È la prova che se hai i numeri il sesso non è decisivo e che quindi 1) la leader di Fratelli d'Italia è più brava delle pari genere giallorosse; 2) in Europa si sa far valere meglio dei colleghi maschi; 3) il lavoro paga più di mille slogan, tatticismi e battaglie di comodo; 4) ancora di più, specie a livello internazionale, contano coerenza e capacità di essere se stessi a prescindere dagli altri.

LA LEZIONE DI GIORGIA
Questo è da sempre il limite dei politici italiani quando mettono il naso oltre frontiera: sono ossessionati dal riconoscimento e, per ottenerlo, perdono potere contrattuale e non incidono. È capitato al centrodestra moderato, con Forza Italia che pur di essere accettata nel Partito Popolare Europeo ha lasciato umiliare il proprio leader dalla Merkel e dai francesi. È capitato al Pd, che ha sempre spedito in Europa parlamentari di terza fila e commissari che, come la Mogherini, si sono rivenduti appena sbarcati a Bruxelles. E forse in parte è capitato anche alla Lega, che senza accorgersi di essere il partito leader dei sovranisti in Europa ha stretto rapporti che la hanno indebolita anziché rafforzarla. Il partito guidato dalla Meloni rappresenta trenta delegazioni ed è composto da una quarantina di sigle nel mondo.

Al di là del peso specifico, che non è da poco, conta il segnale, che smentisce la narrazione della maggioranza giallorossa di una destra italiana isolata in Europa e che sarebbe la palla al piede del Paese nell'Unione. Non è così, Fdi e Lega sono all'opposizione ma in posizioni di primo piano nei rispettivi schieramenti. Puntano su un'idea di Europa federale, con una netta distinzione degli Stati, liberi di inseguire i propri interessi e attuare le proprie politiche nazionali all'interno di un'istituzione compatta e capace di porsi come entità unica nei confronti delle superpotenze mondiali. L'opposto dell'attuale Ue, un campo aperto e confuso dove, in nome di una finta unità d'intenti e sotto l'ombrello della difesa di sacri principi e buoni sentimenti, si consuma una guerra interna tra Stati nella quale vince il più forte. Cioè non noi.

PROSPETTIVE FUTURE
La Meloni ha preparato la sua nomina intessendo fitti rapporti diplomatici con i polacchi di Diritto e Giustizia, al governo a Varsavia, e con il viaggio del febbraio scorso negli Usa, dove ha parlato alla convention repubblicana, presente Trump. Quale sarà il futuro del centrodestra italiano, in Europa diviso in tre gruppi diversi, Forza Italia in quel grande centro a trazione tedesca che è il Ppe, la Lega tra i nazionalisti di Identità e Democrazia e Fdi là dove sedevano anche i Tory, non è ancora chiaro. È una fase nella quale i tre partiti sono alla ricerca di un nuovo filo comune ed equilibri diversi. Il segnale che ha dato la Meloni è di essere sul pezzo, in Italia come all'estero. Agli alleati sta prenderle le misure o sfruttarne le potenzialità.

 

 

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