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Giuseppe Remuzzi, la ricetta anti-pandemia: "Il coronavirus si cura da casa, inutile aspettare il risultato del tampone"

Pietro Senaldi
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Proprio là, nella Bergamasca, dove più ha infierito il virus, il cerchio potrebbe chiudersi. Tre settimane fa, Marco Imarisio, inviato del Corriere della Sera, aveva scritto di un documento firmato dal professor Giuseppe Remuzzi e altri tre suoi colleghi, Fredy Suter, per anni primario nel reparto di Malattie Infettive all'Ospedale di Bergamo, Monica Cortinovis e Norberto Perico. Nel testo ci sono le indicazioni su come prevenire l'infiammazione da Covid-19, impedendole di degenerare in polmonite interstiziale, curando a casa i primi sintomi. Libero è venuto in possesso del prezioso manoscritto. Remuzzi vanta decine di pubblicazioni scientifiche. È direttore dell'Istituto Farmacologico Mario Negri ma oggi parla unicamente come medico di corsia, che combatte il male tutti i giorni , ricavandone esperienza. Seduto alla sua scrivania, è restio ad aprirsi, dopo le polemiche che nei giorni scorsi hanno travolto gli scienziati, attaccati per il vezzo di andare spesso in televisione a esprimere pareri discordanti. «Ora fanno anche le classifiche e danno il voto» scherza il professore, che vanta uno tra gli indici scientifici più elevati tra i ricercatori italiani. Alla sua scrivania è prudente, sa che l'argomento è delicato e lui sta per dire qualcosa di importante, ma non vuole suscitare polveroni né impartire lezioni di medicina. Obiettivo dell'intervista è solo comunicare la sua esperienza di dottore ospedaliero e ricercatore.

Cos' è questo documento?

«Innanzitutto le dico cosa non è. Non è un protocollo scientifico né una linea guida, ma semplicemente la sintesi delle nostre esperienze sull'efficacia dei farmaci nella cura del Coronavirus messa nero su bianco. Tutto quello che c'è scritto si basa sul poco che c'è in letteratura sul Covid-19 e sulla nostre (poche) conoscenze della malattia sul campo».

Com' è nato il documento?

«Riceviamo centinaia di richieste di informazioni da tutto il mondo, specie dall'America Latina e dall'Africa. Noi rispondiamo a chiunque, anche se ci richiede moltissimo tempo. Questo documento contiene i consigli che noi diamo ai medici di Paesi che non hanno un sistema sanitario come il nostro su come curare il Covid. L'abbiamo pubblicato anche sulla rivista Clinical and Medical Investigation; ma, ci tengo a precisare, non è attribuibile all'Istituto Mario Negri».

Si tratta di linee guida?

«No. Una terapia, prima di diventare linea guida, impiega degli anni. Il meccanismo è complesso, richiede molti studi, poi deve formarsi una letteratura medica, così finisce che i protocolli di cura, nel momento in cui vengono emanati, sono già vecchi. Il documento è solo l'indicazione della terapia che noi utilizziamo».

Quindi non segue le linee guida?

«Di fronte all'emergenza bisogna secondo me utilizzare le conoscenze sulle cause della malattia. Sono saperi imperfetti, ma ci sono. Ti aggrappi a tutto quello che c'è in letteratura e alle esperienze che hai maturato nel trattare malattie simili. Se hai troppe persone che stanno male e i letti in ospedale sono pieni, devi iniziare ad assistere la gente a casa».

Parliamo della terapia

«Come per tutte le malattie, anche per il Covid-19 è fondamentale intervenire tempestivamente. Prima curi, più hai successo. Bisogna evitare il più possibile di arrivare al ricovero in ospedale. E questo aiuta anche gli ospedali ad assistere i malati gravi, e solo quelli, senza essere impegnati su troppi fronti anche con malati di forme lievi. Secondo noi, il discorso vale anche per le persone anziane: se le curi per tempo a casa, probabilmente eviti il ricovero anche a loro. Gli anziani hanno molto spesso problemi di coscienza, ricoverarli li destabilizza».

D'accordo, ma se non so di essere malato, non mi posso curare...

«La malattia funziona così: si ha una prima fase asintomatica che dura da tre a cinque giorni. La quantità di virus in corpo in quel momento è già alta, e lo è molto di più nei giorni successivi, proprio quando cominciano i primi sintomi; per questo il contagio si propaga rapidamente. La peculiarità del nostro approccio è iniziare la cura ai primi sintomi, senza aspettare il risultato del tampone».

Non è pericoloso curarsi senza sapere cosa si ha?

«No. È più pericoloso aspettare di fare il tampone, e quindi che arrivi l'esito, senza intanto fare nulla, perché rischia di passare anche una settimana e a quel punto si interviene quando l'infiammazione è avanzata e la patologia tende ad aggravarsi, cosa che di solito succede dopo dieci giorni dai primi sintomi. La malattia nella fase iniziale, prima di scendere ai polmoni, si comporta come le altre malattie virali delle vie respiratorie alte, ed è lì che va affrontata. Noi vorremmo prevenire la fase che gli inglesi chiamano "hyperinflammation", infiammazione eccessiva, che trascina con sé una serie di fenomeni negativi».

Cosa bisogna fare allora?

«Appena si avvertono i sintomi più comuni: tosse nel 67,8% dei casi, febbre (43%), affaticamento e spossatezza (38,1%) e meno frequentemente dolori ossei e muscolari (14,9%), mal di gola (13,9%) e mal di testa (13,6%) o, più raramente, nausea e vomito (5%) o diarrea (3,8%) noi suggeriamo di assumere nimesulide o celecoxib, per via orale, se non ci sono controindicazioni, per un massimo di dieci giorni. Nimesulide e celecoxib sono inibitori della ciclossigenasi 2 e ci sono molti dati, riassunti in un lavoro pubblicato sul Journal of Infectious Diseases, che dimostrano che questi farmaci inibiscono quella che gli immunologi chiamano "tempesta citochinica" e limitano la fibrosi interstiziale dei polmoni. Per quanto riguarda le dosi e il periodo di somministrazione però, è il medico di famiglia che deve decidere. Può ispirarsi, se vuole, al nostro lavoro appena pubblicato su Clinical and Clinical Investigations. Lì c'è tutto: dosi, tempi di somministrazione, controindicazioni».

Questi antinfiammatori sono sufficienti?

«Sì. In subordine, per esempio se i pazienti hanno segni di danno epatico o problemi cardiaci, possono sostituire quei farmaci con l'aspirina».

Molti prendono la Tachipirina...

«Abbassa la febbre ma non ha un'azione antinfiammatoria. E poi, secondo un lavoro pubblicato su Science Direct da ricercatori francesi per conto della società di farmacologia, ci sono ragioni teoriche per pensare che non sia il farmaco ideale (potrebbe anche favorire, in seguito, un aggravarsi della malattia)».

Se poi si scopre che non sono positivo, ci sono controindicazioni?

«No, perché questo è quello che si fa per qualunque virosi delle alte vie respiratorie che dia dolori muscolari, articolari e febbre. Se uno non ha il Covid-19, si limiterà a guarire i malesseri che l'hanno messo in allarme».

Quando va chiamato il medico?

«Appena compaiono i primi sintomi. Gli antinfiammatori sono farmaci da maneggiare con attenzione. In certi casi, per fortuna rari, possono avere effetti negativi. Insomma, cura a casa non significa affatto cura fai da te. Su questo vorrei essere molto, molto chiaro, perciò in questa prima fase sarebbe molto importante che il medico vedesse il paziente a casa almeno una volta, poi potrebbe essere sufficiente sentirsi al telefono, molto meglio se tramite videochiamate».

Che risultati si ottengono con gli antinfiammatori?

«I pazienti che abbiamo curato così di solito stanno meglio subito, nel giro di tre-quattro giorni. Al quarto giorno, facciamo comunque pochi esami del sangue. Se è tutto normale, si procede ancora per qualche giorno con nimesulide o aspirina. Se i valori sono alterati, il medico giudica se è il caso di fare una radiografia del torace (sempre a casa) e passare eventualmente ad altre terapie».

Cosa significa valori alterati?

«Se si evidenzia che si procede verso una iper-infiammazione o una coagulazione».

A quel punto si viene ricoverati?

«Tendenzialmente no. Ripeto che, se si parte per tempo, il ricovero è una rarità. Si può continuare da casa anche se i sintomi peggiorano, ma allora può servire il cortisone; anche qui, di nuovo, lasciamo dosi e modalità di somministrazione al medico di famiglia. Se il D-dimero aumenta anche di poco, per prevenire la trombosi somministriamo eparina a basso peso molecolare. Anche qui, sempre al medico saranno affidati i dosaggi e i tempi di somministrazione».

Però secondo il Comitato Tecnico Scientifico per somministrare l'eparina serve il ricovero

«Ma l'Agenzia del Farmaco la autorizza anche a casa e nelle residenze per anziani. Solo in Lombardia ci sono quasi trecentomila persone curate a casa con qualche forma di eparina».

Niente antibiotici?

«Per le persone più fragili e anziane, o se la patologia è già degenerata in polmonite batterica, o si sospettano infezioni batteriche, somministriamo azitromicina. Se il paziente però ha una storia di aritmie cardiache, meglio cefixima: può essere ritenuta una valida alternativa all'azitromicina».

E l'ossigeno?

«Un supporto di ossigeno nelle prime fasi della malattia, possibilmente prima della comparsa dei sintomi polmonari, se il saturimetro indica una diminuzione progressiva dell'ossigeno nel sangue».

Scusi se insisto, ma mi sembra un approccio rivoluzionario: tutto questo stando a casa?

«Se si parte presto, di solito si riesce a evitare il ricovero».

Parliamo anche di pazienti anziani e con diverse patologie?

«Sì, secondo il professor Suter ne abbiamo perso solo uno, ma perché siamo intervenuti in ritardo, a situazione già compromessa».

Nel complesso che efficacia riscontra nella terapia?

«Per adesso è tutto empirico anche se ci sono importanti lavori in letteratura a supporto di quanto noi facciamo. Per esempio c'è un lavoro pubblicato su Anesthesia and Analgesia, un giornale americano, che dimostra come l'aspirina riduca la necessità di terapia intensiva e di ventilazione assistita e riduca la mortalità. Presto inizieremo uno studio vero e proprio, questo sì è un ambito di competenza dell'Istituto Mario Negri. Alla fine di questo studio, che durerà però diversi mesi, potremo dire se questo tipo di approccio ha o no una dignità scientifica. Adesso il nostro lavoro si limita a rispondere alla domanda che ci fanno spessissimo tanti medici: "come curo il mio paziente a casa?" E questo è proprio il titolo del lavoro».

Quanti medici seguono il vostro approccio?

«Per ora il professor Suter ha coinvolto una quindicina di medici di base. I primi risultati sono incoraggianti. Lui mi ripete tutte le sere: "Chi inizia a seguire la cura come diciamo noi, non ha nessuna intenzione di tornare indietro", e la sua voce esprime una sicurezza che infonde ottimismo».

Cosa pensa della terapia monoclonale, tratta dagli anticorpi dei pazienti guariti?

«Nella maggior parte dei casi funziona nel prevenire l'evoluzione della malattia. Lo fa potenziando le difese dell'individuo, perché non tutti sono in grado di produrre abbastanza anticorpi per difendersi da soli. Ma la risposta clinica è molto diversa da paziente a paziente e dipende anche dalla fase della malattia in cui si inizia».

La prossima sfida però è fermare il contagio

«Se il 95% dei cittadini seguisse alla lettera le indicazioni mediche: mascherine, locali areati, igiene, distanziamento, poche persone nella stanza, il virus farebbe molta fatica a circolare e, secondo uno studio pubblicato su uno dei giornali di Science riferito alla popolazione americana, si risparmierebbero moltissimi morti. Il contagio può avvenire anche nei giorni immediatamente precedenti allo sviluppo dei sintomi, cioè quando si è del tutto asintomatici. Invece chi è guarito, anche se ancora positivo, di solito ha una carica virale molto bassa».

E poi ci sono altri asintomatici...

«Sì, quelli delle fasi finali dell'epidemia. Uno studio cinese, pubblicato su Nature Communication ha identificato 300 asintomatici su nove milioni di persone, ha rintracciato tutti i contatti, erano più di 1174 e nessuno si è infettato». 

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