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Mario Draghi e il governo tecnico? Quella ricorrente tentazione di far fuori la politica

Francesco Carella
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Vi è un filo rosso che attraversa la storia moderna dell'Occidente rappresentato dalla ricorrente tentazione di liquidare la politica, per sostituirla con personale tecnico di alto livello e di sicura moralità. Si tratta di un'idea che si ripresenta in coincidenza di alcuni passaggi delicati nello sviluppo delle democrazie e che crea l'illusione di riportare indietro l'orologio della storia al tempo in cui non era ancora nato lo Stato moderno, con il quale si afferma il mercato e la conseguente separazione fra la sfera economica e l'area della discrezionalità politica e si configura la distinzione dell'etica - intesa come ragione dell'individuo - dalla politica, vissuta come entità dello Stato. Va da sé che un ritorno al passato non ha più alcun punto di raccordo con gli ordinamenti liberaldemocratici che conosciamo e che sono stati conquistati dal mondo occidentale dopo lunghe e costose battaglie condotte sul terreno delle idee e della forza. Tuttavia, mentre una tale consapevolezza appartiene ormai da parecchi lustri al patrimonio culturale di tutti i Paesi democratici - i quali hanno confinato in soffitta l'idea di neutralizzare l'arena politica - in Italia si continua a credere che dell'autonomia politica si possa fare a meno sostituendola con l'etica - si pensi allo stucchevole leitmotiv del populismo giustizialista di matrice post-comunista e al successivo richiamo demagogico all'onestà dei 5Stelle - o assegnando poteri, che dovrebbero essere esercitati dai rappresentanti del popolo sovrano, a una élite tecnico-amministrativa priva di qualsivoglia legittimazione. Infatti, sono alcuni decenni che nei momenti di crisi si ricorre sempre al medesimo copione. Si parte dalla constatazione che per dare vita a una coraggiosa e razionale stagione di riforme sia necessario raccogliere il parere di persone qualificate e competenti, dopodiché si accredita la tesi che sia meglio affidare il potere direttamente a un gruppo di tecnici nella convinzione - difficile dire se per calcolo o per ingenuità - che i problemi politici non siano l'effetto di conflitti socio-economici ineliminabili, ma rappresentino la conseguenza di errori di ordine amministrativo commessi da coloro che dovrebbero guidare il Paese e che non sono in grado di farlo.

 

 

 

La pretesa di eliminare i conflitti

In tal modo, si nega l'essenza della democrazia politica intesa come luogo in cui si portano a sintesi interessi e valori diversi attraverso il consenso popolare. In tal senso è quanto meno opportuno, a fronte dell'euforia con cui la recente "rivoluzione dei sapienti" (nella versione targata Draghi ) è stata accolta da un'opinione pubblica sfiancata dalla crisi economico-sanitaria, non trascurare il fatto che con i competenti al governo non si azzerano, come d'incanto, né i conflitti sociali né la perenne lotta per il potere. Con l'aggravante che il passaggio di testimone al vertice del Paese fra "politica e tecnica" comporta un cambio di élite la cui attività è destinata a sfuggire ai democratici controlli elettorali. Ammoniva Isaiah Berlin, in una memorabile lezione tenuta alla Bbc radio sui nemici della libertà, che «il governo dei tecnici altro non è che una versione aggiornata e moderna dell'ideale autoritario del vecchio governo dei custodi». Se così fosse, in Italia ci troveremmo dalle parti - per dirla con il rappresentante della migliore tradizione del liberalismo europeo - dei «governi antagonisti della democrazia liberale».

 

 

 

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