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11 settembre, la triste verità di Renato Farina: "Eravamo tutti americani, ora non più"

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Viene in mente che "Vent' anni dopo" è il romanzo più malinconico di Alexandre Dumas: i moschettieri, specie Portos, il migliore, finiscono avviluppati tragicamente da «una notte burrascosa e buia». Parallelo esagerato? Ma non è che l'Occidente sia in forma. Di certo vent' anni fa eravamo tristi ma orgogliosi dei nostri fratelli e alleati statunitensi. Ora meno, parecchio meno. Il Corriere della Sera di Ferruccio de Bortoli titolando «Siamo tutti americani» aveva trasformato in manifesto i sentimenti dell'Occidente. Hanno colpito anche noi. Reagiremo insieme. Ci identificavamo con i pompieri di New York. Avremmo voluto somigliare ai passeggeri del volo United Airlines 93, il quarto aereo destinato ad abbattersi sulla casa Bianca o il Campidoglio ed invece fatto coscientemente cadere, dopo una votazione democratica, da gente comune che non voleva diventare una bomba per ammazzare altri americani. E adesso? Nessuno userebbe più questo titolo.

Siamo propensi ad attribuire i disastri susseguitisi da allora agli Usa e basta. Noi che c'entriamo? Come diceva Caino a Dio che lo intervistava risponderemmo: «Sono forse io il custode dei miei fratelli americani?». In realtà i Paesi europei hanno accettato la supremazia della Casa Bianca, anche chi ha fatto il meno possibile (come francesi e tedeschi) non ha mai comunque proposto - per debolezza o per opportunismo - una strategia alternativa da quella dei presidenti americani. Tutta la Nato ha aderito alla guerra mondiale al terrorismo dichiarata da George Bush jr, ed anche la Russia di Putin accettò a Pratica di Mare nel maggio del 2002 di legarsi a questo progetto. Fu un clamoroso successo di Silvio Berlusconi. Ma a quel tempo pareva tutto molto semplice. Si era stabilito soltanto un punto cardine. Bisognava eliminare dalla faccia della terra l'organizzazione che puntava a distruggere «ebrei e crociati». Individuare i santuari, colpirli, eliminare il capo e i sottocapi. Il problema è che gli americani hanno giustamente puntato sull'Afghanistan dov' era ospitato e protetto. Ma una volta costretti alla fuga in Pakistan Bin Laden perché restare a Kabul e occupare un Paese dove non c'era più nessuno dei capi e capetti? Lo si sapeva tutti quanti.

 

 

 

Ne è testimone il libro del 2005 "Le parole di Osama", allegato a Libero e firmato da Vittorio Feltri e da me, dove spiegammo che proprio in qualche campo da quelle parti si era rifugiato, con la benevolenza dei servizi segreti pachistani che pure dovrebbero essere alleati della Cia. Dopo l'Afghanistan, Bush individuò l'Iraq, grazie a prove fasulle su armi atomiche e armi di distruzione di massa mai possedute da Saddam Hussein, per invadere il Paese e impiccarlo.

L'Italia per lealtà assecondo questa avventura nel marzo del 2003, con Berlusconi che aveva implorato inutilmente Bush di fermarsi. Nel frattempo in Spagna, in Gran Bretagna, in Turchia, nella Russia si succedevano stragi ordite dagli islamici. Ma non erano azioni di portata tale da incidere negli equilibri strategici. Ammazzavano gente qualunque, per indurre paura, era però evidente che la capacità di ordire piani paragonabili a quello dell'11 settembre era finita. Gli islamisti assassini non stavano laggiù, erano già qui, sono ancora qui. A che serviva insistere su una presenza massiccia di truppe dove di Al Qaeda non c'era più o non c'era mai stata l'ombra? Delirio di potenza. Ideologia. Mentre mandavamo soldati europei a congiungersi con i marines e i contractor in Asia, con mezzi ipertecnologici naufragati tra le petraie kirghise e pasthun, da noi camion scassatissimi erano guidati da dilettanti del terrorismo jihadista per straziare centinaia di poveri cristi per le strade di Nizza, Barcellona, Berlino, Londra. Poi Parigi con i commando. La prima guerra per annientare Bin Laden era diventata ormai un'altra guerra. Quella per costruire Stati liberal-democratici. Bush aveva individuato due Paesi: Afghanistan e Iraq.

 

 

In quest' ultimo Paese nel frattempo era riuscito, per eterogenesi dei fini, a creare il clima adatto all'innesto di una nuova mostruosa pianta carnivora persino peggio di Al Qaeda: il Daesh o Isis del Califfo Al Baghdadi, con le sue bandiere nere di conquista. Obama aveva visto più largamente ancora di Bush. Dopo aver eliminato fisicamente Osama in Pakistan, pensò bene di finanziare e sostenere l'abbattimento di presidenti più o meno dittatori ma di certo nemici giurati dell'Islam radicale, come Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia e Bashar al-Assad in Siria. Il risultato è stato duplice: la proliferazione delle armate di miliziani musulmani pronti a versare il sangue di gente inerme, specie se cristiana; il campo libero all'espansione territoriale dell'influenza russo-turca nell'area mediorientale e mediterranea, e la capacità spaventosa della Cina di approfittare di queste sventure americane e dei cagnolini europei tenuti al guinzaglio da Washington per ingrandire il suo impero.

L'abbandono precipitoso dell'Afghanistan voluto da Trump e gestito orrendamente da Biden con la strabiliante accondiscendenza tattica e strategica europea, ci pone adesso in una condizione di fragilità gravissima. Di due tipi: morale, perché l'Occidente ha tradito le sue promesse; geopolitica, perché il Drago cinese si è comperato senza versare una goccia di sangue i Talebani

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