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Sergej Lavrov, la comica del ministro russo: "Quale invasione?", dittatura batte diplomazia

Giovanni Sallusti
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l dramma personale dentro la tragedia collettiva è quello di Sergej Viktorovich Lavrov, ministro russo degli Affari Esteri, fino a poche settimane fa probabilmente il più abile diplomatico in attività. Oggi un fantasma, nemmeno di se stesso, un fantasma delle pulsioni più elementari, prevedibili e smaccatamente contraffatte di cui cade preda ogni propaganda di ogni dittatura a ogni latitudine, quando alza troppo la posta. Ieri lo spettro di Lavrov si è presentato in conferenza stampa, dopo l'incontro fallimentare (perché nato già tale nella testa del principale, lo Zar) con l'omologo ucraino Dmytro Kuleba in Turchia. 

 

A quesito specifico di un giornalista, ha dichiarato (ma non è il verbo giusto, qui non c'è più in ballo uno straccio di significato condiviso, diciamo ha emesso i seguenti suoni): «In risposta alla sua domanda, se abbiamo intenzione di attaccare altri Paesi: no, non intendiamo farlo. Non stiamo attaccando neppure l'Ucraina. Stiamo rispondendo agli attacchi dell'Ucraina». Duecentomila soldati che invadono un'altra nazione, le code chilometriche dei carri armati, le città assediate, i missili contro le centrali nucleari, le stragi di civili. Non stanno attaccando, è di tutta evidenza. Quanto all'ospedale pediatrico di Mariupol sventrato dalle bombe russe, trattasi chiaramente di un covo di neonazisti: «Era la base dell'ultraradicale battaglione Azov» (il quale più che un battaglione dev' essere un'armata planetaria, visto che Mosca lo segnala ovunque). In ogni caso, i civili ucraini sono «usati come scudi umani» e «tenuti come ostaggi» dal loro stesso governo, sostiene il più importante ministro del Paese che li sta sparando addosso anche quando si mettono in fila nei fantomatici «corridoi umanitari». Sopra tutto, Lavrov ormai lo ricorda ogni due frasi, la Russia si «sta difendendo». Il raffinato conoscitore del gioco geopolitico, laureato al prestigioso Istituto Statale per le Relazioni Internazionali di Mosca, uno dei pochissimi della cerchia di Putin non cresciuto nel Kgb e perfettamente a suo agio nei consessi occidentali, non c'è più. 

 

Al suo posto, un funzionario grigiastro e perfino impacciato che sembra uscito dalle pagine di Orwell, un adepto dei tre slogan del "Socing", l'ideologia totalitaria sezionata in 1984: «La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L'ignoranza è forza». Qualcosa di più del ribaltamento della realtà: la negazione stessa che esista qualcosa come la "realtà", un nocciolo duro fattuale non aggredibile dal Partito e dal regime, e la sua riduzione ad appendice degli umori del potere politico. «La storia era un palinsesto che poteva essere raschiato e riscritto tutte le volte che si voleva», scriveva Orwell, figuriamoci la cronaca. E così la "colomba" Lavrov, il professionista della Guerra Fredda che aveva perfettamente chiaro come l'invasione fosse contro gli interessi vitali della Russia, il governante/intellettuale che in un'intervista a Foreign Policy dichiarò di ispirarsi al principe Alexander Gorchakov, il ministro degli Esteri che ricostruì l'influenza dell'Impero zarista dopo la sconfitta in Crimea «senza muovere un cannone, esclusivamente con la diplomazia», si è trasformato nel più tetro ripetitore del bispensiero putiniano. Perché la guerra di Vlad, si sa, è pace.

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