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Mario Draghi, "no" di Giuseppe Conte al decreto energia? La vendetta del premier, salta il governo?

Pietro Senaldi
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Il reddito di cittadinanza non gli piace, lo ha lasciato più che indendere, ma se lo è tenuto, facendo finta di "condividerne il principio", come ebbe a dire. Il super bonus del 110% invece non solo non gli piace affatto, e lo fa sapere chiaramente, ma neppure lo tiene. Dal punto di vista economico la decisione ha un senso: la pensata grillina di rimborsare 110 euro a chi ne spende cento prima ha fatto schizzare l'inflazione, poi ha fatto sparire le materie prime, conseguentemente ha portato a un nuovo brusco rialzo dei prezzi di un tot. Insomma, l'idea di Giuseppe Conte per rilanciare l'economia, che ha fatto felici anche molti speculatori, che hanno incassato senza neppure avviare i lavori, è degna di un somaro. Ma non è solo per questo che il premier ieri l'ha bocciata sonoramente. Lo stop di Palazzo Chigi al super bonus arriva infatti a meno di ventiquattr'ore dallo sgarbo di M5S, che non ha votato i provvedimenti con i quali il governo prova a dare qualche sostegno, ancorché insufficiente e più che criticabile, all'economia, tipo i bonus famiglia: 200 euro una tantum che costano sei miliardi alle casse dello Stato senza rendere né risolvere alcunché. Sul momento, Mario Draghi aveva minimizzato il niet di Conte, giustificato con l'opposizione al termovalorizzatore di Roma, contenuto nel provvedimento.

 

 

All'indomani, ha consumato la sua fredda vendetta. Il punto è che, per quanto si sostenga a sinistra che il premier ha una coabitazione difficile con Matteo Salvini, la realtà è che a far saltare la mosca al naso all'ex governatore della Bce ogni volta che aprono bocca non sono i leghisti, bensì i grillini. E questo non è un problema per la navigazione dell'esecutivo, che procederà agitata fino al termine della legislatura, ma è un grosso rebus per il Pd di Enrico Letta. Il massimo, forse l'unico politico, fan di Draghi è costretto infatti per pesare ad accompagnarsi con il partito più anti-Draghi del Parlamento, perfino più di quanto non lo sia Fratelli d'Italia, che pure è all'opposizione. La situazione non può reggere a lungo, e soprattutto per questo il segretario dem ha cambiato idea sul sistema di voto, e dopo anni di professioni di fede nel maggioritario parrebbe intenzionato a virare verso il proporzionale, che gli consentirebbe di scaricare lo scomodo alleato e sostenere anche dopo il voto un eventuale governo di grande coalizione magari anche con l'eterno Draghi al timone, sempre che non abbia trovato nulla di meglio da fare nel frattempo e se, come possibile, il litigioso centrodestra non riuscirà a quagliare da solo.

 

 

Insomma, la frattura tra il titolare di Palazzo Chigi e Conte si fa di settimana in settimana più marcata e nel solco di essa iniziano a cascare i semi di quanto potrebbe germogliare nella primavera del 2023, specie se, come sembra sempre più verosimile, la guerra in Ucraina dovesse protrarsi fino ad allora. Le bordate che il premier ormai non si preoccupa più di risparmiare a M5S sono dei paletti che egli mette a ogni suo coinvolgimento futuro. Questa volta è stato chiamato per risolvere l'emergenza Covid e ottenere i prestiti dall'Europa, con un Parlamento nel quale i seguaci di Beppe Grillo fanno la parte del leone. Un domani, quando i grillini saranno pulci, nessuno della classe dirigente che tanto piace a Letta, orgoglioso di farne parte, consentirà al Pd di cooptarli, neppure in posizione subalterna. 

 

 

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