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Deriva giustizialista, la vergogna di chi sfrutta il nome di Falcone e Borsellino

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Il trentennale dell'assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dovrebbe essere l'occasione per denunciare che la fine ingiusta e terribile di quei magistrati continua a rappresentare il pretesto per la riaffermazione di una cultura che ha fatto molto poco male alla mafia e molto male alla civiltà giuridica e democratica di questo Paese. È impossibile dirlo, perché passa per blasfemia insultatrice della memoria di quei due poveretti, delle loro scorte e di tutti gli altri - purtroppo tanti - fatti fuori dal piombo e dal tritolo della criminalità stragista: mala cultura antimafia propugnata in sede processuale, e trasfusa in aula di giustizia, rappresenta il vizio capitale dell'azione giudiziaria che ha preteso di ispirarvisi, come nel caso dell'altro grande movimento giudiziario che si pretende portatore di chissà quale risveglio civile, vale a dire "Mani Pulite".

 

Nei due casi, pressoché identicamente e con identiche devastazioni non solo di mille e mille vicende individuali, ma del generale equilibrio democratico, si è infatti preteso di processare un "fenomeno": ora "la mafia", ora "la corruzione", e già l'uso di diciture come "maxiprocesso" o "madre di tutte le tangenti" denunciava una stortura, un fraintendimento che non era soltanto giornalistico ma risuonava nelle requisitorie dei pubblici ministeri e si incartava nei provvedimenti che, appunto, cessavano di riguardare questo o quel delitto, questo o quel responsabile, e si rivolgevano alla tutela dell'ordine politico, dell'ordine economico, dell'ordine pubblico, tutte cose alla cui tutela non è chiamata la magistratura. E ad aggravare il danno arrecato da certa antimafia, come dalla cultura di Mani Pulite, c'è che è stato fatto in nome del popolo italiano. Farne ancora e rivendicarne il diritto in nome di Falcone e Borsellino è un'altra vergogna.

 

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